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L’immagine è una Parola e la benedizione è un dono: «Che cos’è l’uomo perché te ne curi?»

di Don Antonino De Maria

Ci si può perdere in questo mondo di immagini che pretendono di dire tutto e di parole svuotate di senso: tutto ha uno scopo, veicolare un’emozione, far sorgere un convincimento, attrarre. Eppure restano sempre ai margini di una realtà complessa che supera l’immagine e la parola; che è vera, esiste ed è irriducibile all’interpretazione, anzi si sottrae, più essa vive ad un clichè, ad una didascalizzazione. L’uomo e il suo mistero sono irriducibilmente altro rispetto alla “didascalia” con la quale tentiamo di etichettarlo.

Così negli intellettuali e nell’intellettualismo neognostico che fa della pretesa del sapere l’unica verità e salvezza da un mondo confuso di sensi e di interpretazioni, la didascalia, il commento, riducono sempre tutto alla fatica del sintetico, dell’immediato, del tracciabile in una reductio assassina.

Vi sono esempi ovunque di questo movimento, dai mass media alla esperienza di alcuni movimenti di distruzione di ogni passato, in una sorta di centrifuga culturale che ha la pretesa di denunciare ed eliminare ogni presunta mala radice per costruire un mondo nuovo: il figlio che uccide il padre nella pretesa di poter essere migliore liberandosene. Ma per essere migliori del proprio passato, ammesso che esso corrisponda alla decostruzione della mentalità presente, non è necessario distruggerlo: basta scendere dal podio della propria superba autodichiarazione di innocenza per guardarsi dentro, guardare alla verità di sé, figlia di un crossing over culturale che mi fa in parte ciò che sono, e ripetere quella domanda che non è neognostica, cioè non rimanda ad un’altra provenienza, ad un altrove, non più metafisico ma semplicemente astratto, alienato e alienante come l’effetto di un allucinogeno; quella domanda che rimane il cuore dell’uomo, di ogni tempo e stagione culturale e che un non più conosciuto Leopardi, esprime nella tragicità del suo percorso umano, così vero e sofferto: “Dimmi, o luna: a che vale al pastor la sua vita, la vostra vita a voi? dimmi: ove tende questo vagar mio breve, il tuo corso immortale?”[1] A che vale, qual è il senso e il frutto della mia vita, di questo breve vagare della mia esistenza e dell’esistenza di tutti? Mentre la Luna è parola di un eterno presente, l’uomo si affatica nel suo breve tratto di strada a cogliere il senso del tempo oltre l’immediato, il suo fissarsi nell’attimo. L’uomo si affatica come dato e diviene camminando come un simbolo che scopre l’altra metà cercata per ritrovarsi e camminare ancora nel lascito di relazioni che accolgono il dono del suo essere che passa. Resta la Luna come mistero eterno, parola che richiama il mio essere sottraendolo al nichilismo del nulla prima di me e dopo di me: nulla esiste da sé e nulla si fa da se. Per farsi occorre capire ciò che solo nel tempo si manifesta come già dato e già è nuovo ancora mai assopito nella contentezza di sé, nell’acquietamento del fermarsi. Così le immagini, i simboli, le parole si com-muovono insieme all’uomo che cerca e che diventa egli stesso icona, parola scritta ad immagine e mai completamente fissata.

Per questo ci si scandalizza di fronte al vituperio dell’immagine perché non è di astratti simboli che si parla ma di me e di ciò che più mi è caro, come ragione del mio andare e del senso ultimo di me stesso. Nel Cristianesimo non vi sono simboli, come astratti pensieri divenuti segni generici di un codice religioso, ma volti; misteri che si intrecciano come parti nei confronti delle quali si sente forte il senso dell’appartenere: è profondamente umano quando si guarda ciò che è l’eco di qualcosa che mi attraversa, mi appartiene come l’essere, come una madre che sente la presenza del figlio lontano attraverso una cartolina, una foto; o l’innamorato che si da nel gesto di un dono. Mi arrabbio perché mi tocca profondamente, non per un bigottismo di bassa lega.

Anche il benedire è relazione quando incontra il volto dell’uomo e non le cose che l’uomo usa, per sé o per gli altri. Benedire è camminare insieme cercando il bene, insieme. Non approvazione melensa di qualcosa che il tuo desiderio cerca: il bene non lo decide il desiderio né l’intenzione ma il Volto eterno che al di là di me stringe d’amore ogni cosa facendola. Per questo camminare insieme è cercare il Suo Volto che fa essere, cammina accanto, a volte non visto, a volte luce nelle tenebre, non rassicurante notaio ma Padre, che non mi lascia solo e mi abbraccia quando cado e mi rialza, indicandomi la Via. Che cos’è l’uomo perché te ne curi, il figlio dell’uomo perché te ne dia pensiero?


[1] Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’asia

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