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Dopo 2 anni di stop forzato rivive la religiosità popolare: in ascolto del popolo di Dio

di Don Antonino De Maria

È tempo di feste: dopo di 2 anni di ferma forzata riprendono nelle città e nei nostri paesi le feste patronali, con i loro colori, i loro suoni, la voglia di festa e il desiderio di una vita che ritrova la sua bellezza e la sua gioia. Bisogna dire, però, subito, anche le sue contraddizioni.

La pietà popolare è ricca dell’esperienza di una fede incarnata, detta e vissuta, che diventa gesto che coinvolge tutti e annuncia a suo modo il Vangelo e “ manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere” e “rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede” (S. Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 48). Se vi sono dei problemi in questa modalità di manifestazione della fede, questo richiede che il popolo sia sempre rievangelizzato, anzi che rievangelizzi se stesso. Quando usiamo il termine popolo non indichiamo una realtà che si distingue dalla chiesa colta e clericale, ai margini e guardata quasi con sospetto o con paternalismo. Il popolo è tutta la Chiesa, nelle sue varie sfaccettature e nella sua più alta realtà, quella di popolo di Dio che si lascia plasmare dallo Spirito di Cristo che ancora una volta per la fede fa incarnare, cioè umanizza esaltandone la verità e la bellezza, il Verbo di Dio, che ci mostra il volto di Dio che è amore e il volto dell’uomo, tessuto da questo amore e svilito dal peccato, dall’egoismo.

Papa Francesco scrive in Evangelii Gaudium 124-125: “ 124. Nel Documento di Aparecida si descrivono le ricchezze che lo Spirito Santo dispiega nella pietà popolare con la sua iniziativa gratuita. In quell’amato continente, dove tanti cristiani esprimono la loro fede attraverso la pietà popolare, i Vescovi la chiamano anche «spiritualità popolare» o «mistica popolare». Si tratta di una vera «spiritualità incarnata nella cultura dei semplici». Non è vuota di contenuti, bensì li scopre e li esprime più mediante la via simbolica che con l’uso della ragione strumentale, e nell’atto di fede accentua maggiormente il credere in Deum che il credere Deum. È «un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa, e di essere missionari»; porta con sé la grazia della missionarietà, dell’uscire da sé stessi e dell’essere pellegrini: «Il camminare insieme verso i santuari e il partecipare ad altre manifestazioni della pietà popolare, portando con sé anche i figli o invitando altre persone, è in sé stesso un atto di evangelizzazione». Non coartiamo né pretendiamo di controllare questa forza missionaria! 125.

Per capire questa realtà c’è bisogno di avvicinarsi ad essa con lo sguardo del Buon Pastore, che non cerca di giudicare, ma di amare. Solamente a partire dalla connaturalità affettiva che l’amore dà possiamo apprezzare la vita teologale presente nella pietà dei popoli cristiani, specialmente nei poveri. Penso alla fede salda di quelle madri ai piedi del letto del figlio malato che si afferrano ad un rosario anche se non sanno imbastire le frasi del Credo; o a tanta carica di speranza diffusa con una candela che si accende in un’umile dimora per chiedere aiuto a Maria, o in quegli sguardi di amore profondo a Cristo crocifisso. Chi ama il santo Popolo fedele di Dio non può vedere queste azioni unicamente come una ricerca naturale della divinità. Sono la manifestazione di una vita teologale animata dall’azione dello Spirito Santo che è stato riversato nei nostri cuori (cfr Rm 5,5).” È evidente che la bellezza e la forza della pietà popolare sta in questa incarnazione della fede che guarisce da quelle tentazioni che nella stessa esortazione e in molti altri documenti e interventi individua nello gnosticismo e nel pelagianesimo. Nel primo caso si pretende che la fede sia qualcosa che riguarda l’intelletto, uno spirito alto e imprigionato nella carne, ritenuta fango indegno di Dio: uno spiritualismo di élite e antropologicamente mortificante che, tuttavia, va diffondendosi nella mentalità del popolo di Dio e che fa vivere in un docetismo antropologico e cristologico, credendo così di vivere una fede più pura. L’altra tentazione è il pelagianesimo che, invece, riduce l’azione della grazia di Cristo ad uno sprone ad agire, spingendo perciò ad un eroismo senza Cristo, tutto orientato alla propria capacità e al proprio zelo mondano.

Tuttavia questa ricchezza, come abbiamo già detto, va continuamente alimentata dalla Parola di Dio e dai sacramenti e ogni persona va incontrata ed ascoltata perché, se l’avesse perso, riprenda il cammino con Cristo insieme e non trasformi la tradizione nella ripetizione morta del passato. Questa parola, tradizione, è così bella e carica di vita perché ci rimanda alla comunicazione della fede, di padre in figlio e come tale non è mai fissa: la vita si rende conto che deve tener presente i cambiamenti culturali, le appartenenze sfilacciate e soprattutto le omissioni educative di chi ha il compito di spezzare la parola e di guidare la comunità.

 In questo tempo sinodale non vorremmo lasciare indietro nessuno e farci compagni di viaggio degli uomini di oggi, dei credenti di oggi, con le loro crisi di fede, i loro giudizi verso una Chiesa sempre più identificata con il clero e con i suoi peccati e misconosciuta nelle sue grandi esperienze di fede e di carità. Occorre anche vigilare perché non siano altre agenzie mortifere a gestire le nostre bellissime feste, senza mortificare ma con il coraggio di una madre che ama i suoi figli e non li disprezza mai, anche quando sbagliano e sa adeguarsi al cammino di ognuno.

Mostriamo la bellezza dell’incontro con Cristo e saremo profeti non dell’avvenire ma dell’oggi dell’amore di Cristo di cui abbiamo sete e nel quale cerchiamo senso, forza e consolazione ma soprattutto certezza che la vita valga la pena di essere vissuta, sempre; che nessuno è indegno di Dio.

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