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Veglia di Natale 2023: Ecco le parole dell’Arcivescovo Monsignor Luigi Renna

“Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio” (Lc 2, 7). Ecco fratelli e sorelle, il centro di tutti i presepi: una mangiatoia dove il Bambino è avvolto in fasce. Ecco il centro della storia del mondo, che si divide in avanti Cristo  e dopo Cristo: una stalla dove giace un Bambino con genitori che, nel loro vagare, hanno potuto offrirgli; ecco come “funziona” un mondo nel quale non ci può essere altro che un piccolo spazio per un Bambino che noi crediamo essere il Figlio di Dio, che i sapienti considerano come il più grande maestro di vita spirituale, gli uomini e le donne di altre religioni stimano con onestà  come un grande profeta.

Oggi rinasce la fede.

Ci chiamiamo cristiani perché crediamo che quel Bambino è il Figlio di Dio che si è fatto carne. “…Gesù di Nazareth ha fatto sua la sorte dei più umili fra gli uomini, rovesciando in tal modo le logiche umane e manifestando così un volto di Dio inatteso” (Bruno Maggioni).  Il mondo è distratto da luci e feste, da decorazioni che senza pudore hanno cancellato le stalle per sostituirle con “i villaggi di Natale”, le pecore con le renne, i pastori con gli elfi. Tentano di cancellare con le favole la storia, ma non si sono resi conto che tutti abbiamo bisogno di quel Bambino nato negli stenti, come i poveri; che ha emesso i suoi vagiti in una stalla ed è stato deposto nel tepore di una mangiatoia, ed è venuto ad insegnarci che solo chi nasce così può garantire a tutti gli uomini e le donne che si avvicenderanno sulla faccia della terra fino alla fine dei tempi, la grande verità che Dio ama tutti e non esclude nessuno, neppure chi sembra “non contare nulla”. Noi tra poco ci genufletteremo davanti a questa “storia di fede” come fece San Francesco d’ Assisi ottocento anni fa davanti alla culla vuota del presepe di Greccio, e che i suoi occhi di fede contemplarono come il luogo dei disagi del Dio che si è fatto neonato. Oggi nasce la fede in Dio che si è coinvolto in una storia fatta di palazzi e di stalle, ed ha scelto la stalla; fatta di pastori e sapienti, che si inginocchiano indistintamente davanti a Lui scoprendosi uguali e fratelli; ad una storia in cui una umile coppia, Maria e Giuseppe, si stringe attorno ad un Bambino e lo difende, aiutandoci ad accogliere ogni bambino e a custodire ogni affetto familiare.

Oggi è Natale e rinasce la speranza,

come dice un poeta francese, Charles Peguy: “La Speranza è una bambina da nulla. /Che è venuta al mondo il giorno di Natale dell’anno scorso. /Che gioca ancora con babbo gennaio. /Eppure è questa bambina che traverserà i mondi. /Questa bambina da nulla. /Lei sola, portando le altre, che traverserà i mondi compiuti. /Come la stella ha guidato i tre re fin dal fondo dell’Oriente. /Verso la culla di mio figlio./Così una fiamma tremante./Lei sola guiderà le Virtù e i Mondi./Una fiamma bucherà delle tenebre eterne…” A Natale rinasce la speranza, perché nessuno può essere escluso da questo Bambino, nessuno potrà dirsi disperato. Persino il male più grande che cancella ogni bene, la guerra, non potrà mai essere giustificato da questo Dio, e ben lo sapeva il profeta Isaia, che nell’annunciare il Messia disse: “Perché ogni calzatura di soldato che marciava rimbombando ed ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati, dati in pasto al fuoco” (Is 9,4)  Oggi non sono le calzature che rimbombano nelle marce militari a farci paura, ma missili e droni; non mantelli intrisi di sangue, ma armi sofisticate e corpi schiacciati sotto i bombardamenti o sequestrati nelle gallerie di Gaza: no, per questo Bambino che nasce in una mangiatoia il mondo deve prendere una strada diversa dalla guerra, e noi vogliamo continuare a sperare. In una parete davanti all’arcivescovado, una mano ignota qualche giorno fa ha scritto con il gessetto: “Sono passati duemila anni e non è cambiato niente”. No, mi permetto di dire che è cambiato il modo di credere e di sperare, perché il nostro Dio nato a Betlemme è disarmato, non riveste né elmo né corazza, e dirà di sé “Imparate da me che sono mite ed umile di cuore” e dei suoi discepoli “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). La speranza da quel giorno non è più un verbo da coniugare al singolare: “io spero”, ma al plurale, “Noi speriamo”; ed in esso ci sono i vinti e i vincitori, tutti gli uomini e le donne della terra. Oggi, in quella mangiatoia avvolta in fasce, c’è la speranza dell’umanità.

 Oggi è nata la carità,

ed è stata posta nel luogo dove un asino ed un bue si nutrivano di paglia e fieno, perché la carità anzitutto sfama. E quel Bambino è divenuto cibo che per noi credenti è l’Eucarestia: “Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo” (Sant’ Agostino, Sermone 184,4). Abbiamo bisogno di questo pane, perché ogni volta che lo mangiamo cresce la nostra carità, diveniamo ciò che mangiamo. Noi che mangiamo l’Eucarestia, come potremo non divenire come quel pane che nutre, che sfama, che si fa dono? Oggi è nata la carità, proprio a Betlemme, perché quelle fasce dicono la cura di una Mamma nei confronti del Suo Figlio, ma sono l’inizio della virtù che riveste gli ignudi, disseta gli assettati, accoglie gli stranieri, visita i malati e fascia di misericordia il pentimento dei carcerati. Oggi è nata la carità, perché chi è nato come un figlio di povera gente, da povero e servo accoglierà i suoi discepoli, lavando loro i piedi nel cenacolo. Sarà crocifisso come uno schiavo tra due malfattori e insegnerà solidarietà, dialogo, fraternità, pace, che sono i valori che anche nelle società più laiche il cristiano testimonia. Narrerà la parabola del samaritano che fascia le piaghe di chi è stato ferito e insegna a ciascuno di noi a non rimanere indifferente di fronte ai poveri e alle donne ferite e uccise, una quasi ogni tre giorni nel nostro Paese.

 Ecco, aveva ragione San Francesco, che a Greccio voleva vedere con gli occhi di carne quello che il Vangelo ci narra in un rigo, ossia il disagio del Redentore che è nato. E da allora è lodata l’umiltà, la povertà, la carità, perché sono divenute l’ornamento di Dio ed hanno purificato i nostri sguardi, i nostri occhi sensibili solo alle cose che scintillano forse in modo effimero. Per questo non vogliamo vivere che di fede, di speranza e di carità, questi tre doni che il Bambino avvolto in fasce dona all’umanità. E nella nostra testimonianza continua non una favola di elfi e boschi innevati, ma la storia del Verbo di Dio che si è fatto carne; continua nella nostra fede, nella speranza, nella carità, in cammino con tutti gli uomini le donne di buona volontà. È quello che in questa Notte Santa e in questo Giorno Santo di Natale abbiamo da dare ancora all’umanità: “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce, su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse”. (Is 9,1).

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