di Don Giuseppe Raciti

Da questa Quaresima-Pasqua ne usciremo cambiati. Cambiano le nostre abitudini, le nostre relazioni interpersonali, il nostro modo di studiare e cambierà anche il nostro modo di essere Chiesa. Questo deserto quaresimale che non sarà superato neppure a Pasqua, segnerà il passo per un rinnovamento ecclesiale e pastorale che ha fatto fatica finora a decollare.

Dobbiamo ammettere, con lo stesso coraggio di Papa Francesco, «che l’appello alla revisione e al rinnovamento non ha ancora dato sufficienti frutti» (EG 28) e la chiesa del Vaticano II, del Popolo di Dio, sacerdotale, profetico e regale, fatica a tradursi in prassi pastorale.
Le motivazioni di tale fatica sono svariate, alcune delle quali sono state esaminate dallo stesso Pontefice che in EG parla di «accidia egoistica», «pessimismo sterile», «mondanità spirituale» ed altre, offrendo alcune terapie.

Ma io, da prete e pastore, ritengo che sia anche il risultato della paura clericale di perdere “potere”, o «uno spazio» per usare ancora una terminologia cara a Papa Francesco che, sempre in EG, invita la Chiesa a privilegiare il tempo anziché occupare spazi, perché «il tempo è superiore allo spazio» (EG. 222-225).

Questo “potere” che in realtà è una potestas più che potere, è servizio, connesso al ministero ordinato, in queste ultime settimane di “quaresima-quarantena”, lo abbiamo dovuto, per forza di cose, delegare ai nostri fratelli laici. Quanta fatica ha impiegato a decollare la corresponsabilità laicale nella vita e nella missione della chiesa, anche a motivo della resistenza, più o meno consapevole, di un clero che, se con una mano ammanniva il cibo solido della formazione teologica-pastorale, spirituale e biblica, finalizzata a rendere il laicato adulto ed autonomo rispetto al clero, con l’altra poi, nei fatti, si smentiva perché l’autonomia del laicato rispetto al clero, ci faceva sentire inutili o, peggio, talvolta anche scavalcati da un laico che ne sa più di un prete o che è più capace.

Tutto sarà diverso alla ripresa della “normalità”, non soltanto perché molti si ritroveranno disoccupati e busseranno alle porte delle nostre parrocchie, come già in parte sta accadendo, ma anche dal punto di vista ecclesiale e pastorale.

Da circa un mese ormai, i nostri laici, hanno dovuto “fare da soli”, a casa, riscoprendosi sacerdoti della famiglia, presidenti di celebrazioni domestiche, guide di preghiera, organizzatori del culto domestico, mettendo in pratica, di fatto, quel triplice munus sacerdotale, profetico e regale di Cristo cui partecipano tramite il battesimo.

Le case si sono finalmente trasformate in chiese domestiche, santuari, monasteri dove ritrovare il silenzio della preghiera in mezzo alla vita quotidiana, quel “deserto nella città” proposto da Fratel Carlo Carretto, ormai diversi anni or sono.

Tutto ciò che i documenti ufficiali del magistero della chiesa ed una pastorale accorta ha sempre cercato di realizzare, nella fatica di una formazione che rispettasse gli orari e gli impegni familiari, questo tempo di Quaresima-Pasqua vissuta tra le mura domestiche lo sta finalmente realizzando.

Al rientro nella vita ordinaria, noi pastori, non potremo più tornare a considerare questi fratelli laici, che la sofferenza ed il doversi gestire da soli la loro vita cristiana ha fatto maturare, come li abbiamo considerati prima di questa dolorosa, ma performativa esperienza. Non potremo più considerarli semplici spettatori passivi, di un clero che “gestisce” il sacro senza tenerli in considerazione.

Dovremmo partire dal riconoscere un ministero di fatto che hanno dato prova di saper svolgere come hanno potuto, e da lì ripartire per la chiesa di domani.
Nulla potrà più tornare come prima di questa esperienza di vita e di morte che stiamo vivendo. Mai come in questi giorni mi vengono in mente le Parole dell’Apostolo Paolo: «Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio…» (Rm 8,28) scorgendo in filigrana dentro questa triste e dolorosa storia, il filo rosso da cui ripartire per la chiesa di domani.

L’esperienza della pandemia ancora in corso, vede famiglie stroncate, vite perdute sotto gli occhi impotenti degli stessi sanitari o delle famiglie di appartenenza che non hanno potuto neppure essere a fianco ai loro cari durante la malattia o nel momento del trapasso. Ma nel frattempo ci sta restituendo ciò che ci siamo scordati di possedere: gli affetti, i legami, gli abbracci, il potersi guardare negli occhi, stringere una mano…ed ancora la famiglia, la preghiera, la parola di Dio ed un desiderio insaziabile di Eucaristia e comunità.

Ciascuno di noi, insieme al dolore e al sacrificio, sta ritrovando anche il gusto dell’appartenenza. Dalle famiglie, che finalmente hanno ritrovato se stesse, mettendo in campo tutte le migliori risorse umane e cristiane per superare i propri limiti in una convivenza forzata h24 alla quale ormai non eravamo più abituati, perché cresciuti con lo stereotipo di genitori che lavorano tutto il giorno e si ritrovano a mala pena la sera, quando non sono turnisti, fino alle comunità di vita consacrata che stanno riassaporando la gioia ed il conforto della vita comune, ritrovando fratelli e sorelle che avevano dimenticato di avere.

Da qui, come chiesa, dobbiamo ripartire, da questa Pasqua che ci auguriamo essere finalmente la nostra pasqua, la pasqua rinascita di tutti noi, di un corpo ecclesiale più coeso, più ministeriale in cui ciascun membro fa la sua parte, nel riconoscimento rispettoso di ruoli e competenze, evitando che la mano dica all’occhio non ho bisogno di te e viceversa.

Anche a noi Pastori questa Quaresima lascerà il segno: la consapevolezza che noi siamo Corpo di Cristo, insieme a tutto il santo Popolo di Dio fedele, e non senza. Insieme siamo la Chiesa di Cristo, insieme nella rispettosa corresponsabilità di ruoli e ministeri diversi ma al servizio del medesimo Corpo di Cristo. Abbiamo sperimentato ciò che sempre abbiamo saputo: non siamo preti da soli, siamo preti al servizio del sacerdozio comune di tutti i battezzati.
Presto sarà Pasqua, la Pasqua di Cristo e nella speranza la nostra Pasqua…

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