di Don Antonino De Maria

Chi mi conosce sa che non sono certo un’idealista né mi ritengo un “teologo”, titolo che mi imbarazzerebbe paragonato a tanti miei colleghi più bravi di me. Ma c’è una “teologia del gesto” che mi sta a cuore, come scriveva Benedetto XVI presentando la sua prima, grande enciclica, Deus caritas est: “L’organizzazione ecclesiale della carità non è una forma di assistenza sociale che s’aggiunge casualmente alla realtà della Chiesa, un’iniziativa che si potrebbe lasciare anche ad altri. Essa fa parte invece della natura della Chiesa.

Come al Logos divino corrisponde l’annuncio umano, la parola della fede, così all’agape che è Dio deve corrispondere l’agape della Chiesa, la sua attività caritativa.

Questa attività, oltre al primo significato molto concreto dell’aiutare il prossimo, possiede essenzialmente anche quello del comunicare agli altri l’amore di Dio, che noi stessi abbiamo ricevuto. Essa deve rendere in qualche modo visibile il Dio vivente. Dio e Cristo nell’organizzazione caritativa non devono essere parole estranee; esse in realtà indicano la fonte originaria della carità ecclesiale. La forza della Caritas dipende dalla forza della fede di tutti i membri e collaboratori.” Come al Logos corrisponde l’annuncio all’”agape che Dio è” corrisponde la carità che rende presente e visibile il Dio vivente, non soltanto quella del gesto individuale ma quella ecclesiale della quale Cristo e la Trinità sono la fonte: il gesto diventa il palco dove non si presenta un’opera teatrale ma il dramma dell’Incarnazione nel quale l’invisibile, il nascosto, si rende visibile, incontrabile.

Quell’amore di Dio che noi stessi abbiamo ricevuto si rende visibile, testimoniato, con la fragilità di coloro che sono stati amati, pur peccatori, anzi proprio perché peccatori e bisognosi di questo amore, grati per lo stupore di un amore non meritato. Diverso è l’atteggiamento del fariseo che vuole mostrare agli altri solo se stesso, la propria bravura, che ha ricevuto già in questo mondo la sua ricompensa. Tu riconosci il mistero di Dio e non mostrare te stesso, mostra Dio.

Per questo ancora Gesù chiedeva che nelle nostre opere fosse glorificato il Padre, ma la gloria del Padre è l’uomo che vive di Dio, che non cerca il suo interesse, che non si spaventa di toccare il sacramento del fratello, l’altro nel suo bisogno; anzi i tanti altri che hanno bisogno. Oggi non è solo il tuo vicino di casa che ha bisogno: tanti sono sconosciuti, impauriti, non sanno dove andare, a chi rivolgersi.

Il Signore ama chi dona con gioia, scriveva san Paolo, raccontando quello che i Macedoni avevano già fatto ed esortando i Corinti a fare altrettanto, invitandoli ad uscire da quello strano spiritualismo che tanto li faceva sentire arrivati e prediletti da Dio.

Il gesto di fare la carità, nel nascondimento del tuo agire individuale o nella pubblica manifestazione dell’agire ecclesiale è molto più di un gesto morale, è un gesto teologico.

Così quel Gesù che amò i suoi fino alla fine si mostrò quale Maestro ai suoi discepoli che li aveva chiamati a vedere il Volto umano di Dio e, lavando i piedi sporchi della fatica del cammino: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi». 

Lavare i piedi, dunque, del fratello, non solo del condiscepolo, è un atto teologico nel quale mostriamo chi è il Maestro e il Signore e lo testimoniamo: noi siamo i discepoli di questo Dio, perché il mondo possa fare la scelta di credere, anche. Ma soprattutto di sentirsi amato. Buona Pasqua. E un abbraccio a tutti i miei confratelli presbiteri, al mio amato Vescovo e ad ogni membro di questa pellegrinante Chiesa di cui anch’io faccio parte.

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