di Don Antonio De Maria

Nel 2008 viene pubblicata a cura della Conferenza Episcopale Italiana la nuova traduzione della Sacra Scrittura che viene oggi utilizzata nel lezionario liturgico. Già al suo apparire questa traduzione suscitò un notevole dibattito tra gli addetti ai lavori e i fedeli, spinti da alcuni gruppi, a rifiutare per esempio la nuova traduzione del Padre nostro secondo Matteo che verrà utilizzata nella liturgia e non solo nella preghiera privata.[1] Dico subito che molte discussioni sono immotivate e, spesso, emerge quello spirito anti-romano e anti-conciliare di alcuni gruppi, fuori e dentro la Chiesa: fino al punto di far credere, come in altri casi, che pregare con la nuova traduzione sia sbagliato perché non corrispondente al senso della preghiera consegnata da Gesù. Sarebbe lungo e non nelle mie possibilità ritracciare il conflitto delle interpretazioni ma voglio suggerire ai miei lettori come faccio con i miei fedeli alcuni spunti di riflessione per aiutare le persone a credere quello che crede la Chiesa e a comprendere la Scrittura nella sua pienezza.

Il pericolo del letteralismo

Un errore antico quanto moderno è pensare che una traduzione letterale sia necessariamente la più corretta. Il letteralismo è spesso usato nell’antichità per opporsi alla fede della Chiesa: è ancora oggi usato da certe sette per convincere le persone ad aderire a loro, in quanto la fede della Chiesa Cattolica sarebbe falsa e non fondata sulla Scrittura.

L’aveva chiaro Ireneo nel secondo secolo, Origene nel terzo e così via. La traduzione e il senso del testo non può fermarsi alla filologia cioè al senso letterale: la Parola di Dio, che è più grande del testo scritto, va intesa nella sua interezza e non nella semplice espressione verbale.

Origene, per esempio, volendo raggiungere, per l’Antico Testamento, un testo il più possibile vicino al testo ebraico costruì l’Esapla, mettendo in sinossi le traduzioni greche in suo possesso. Tre di queste traduzioni erano di ambiente ebraico: la LXX, Aquila, e, per un libro, Teodozione. Pur essendo dello stesso ambiente del testo fontale esse differivano tra di loro. La LXX, più antica di Aquila, è meno letterale di quest’ultima ed è quella utilizzata dai cristiani; Aquila fu realizzata proprio per contrastare l’uso della Bibbia ebraica alessandrina (LXX) in funzione anticristiana. Ciò lo ha aiutato a comprendere che occorrono criteri diversi per tradurre e interpretare la Scrittura senza fermarsi al senso letterale, andando al senso globale che viene chiamato spirituale.

Lo stesso problema si pone Agostino che nella sua ricerca di comprendere il testo latino (che non è ancora quello di Girolamo, con il quale ha a volte dei diverbi) scrive il De Doctrina Christiana[2] per analizzare i criteri ermeneutici di un testo e, soprattutto, del testo della Scrittura. Vi sono due contesti fondamentali: la Scrittura stessa e la fede della Chiesa. Così d’altra parte fa lo stesso Gesù rispondendo al Maligno nella pericope delle Tentazioni: oppone alle citazioni corrette del Maligno altre citazioni, allo stesso tempo corrette, che smontano l’interpretazione del Maligno stesso.

La nuova traduzione di Non ci indurre in tentazione

Andiamo al punto: il testo greco di Matteo è esso stesso un testo di traduzione da una lingua, una cultura e una religione, quella ebraica, in una lingua e una cultura diversa. Come potrebbe tradursi il testo greco di Matteo?[3] Come vedete non dico che è l’unica traduzione possibile ma quella più vicina al senso letterale: cito tutto il contesto perché ogni proposizione è contestuale alle altre.

“E rimetti a noi i debiti di noi, come anche noi (li) abbiamo rimessi ai debitori di noi e non far entrare noi in tentazione, ma libera noi da il Maligno.”[4] Se questa è la traduzione letterale, qual è il senso? Il senso non può fermarsi al semplice contesto immediato che implica la richiesta di perdono e la domanda di non entrare nella tentazione per non cadere nel male, anzi di essere liberati dal Maligno. Già ho interpretato: ma non è ancora comprensibile che cosa si intenda per tentazione. Occorre allargare la visuale a tutta la Scrittura, senza dimenticare la preghiera stessa di un buon ebreo, secondo il criterio ermeneutico della continuità-discontinuità della rivelazione cristiana. In altre parole Gesù insegna qualcosa di più, non di discordante, di quanto già appreso dagli Ebrei? Se Gesù fosse solo un interprete, uno scriba, un Rabbi, un Maestro noi saremmo soltanto un’appendice dell’ebraismo.

Un esempio patristico

Probabilmente nel prossimo numero di Laos verrà pubblicato un mio articolo sull’interpretazione patristica di Non ci indurre in tentazione che per ovvi motivi non posso riprodurre per intero. Voglio, però, suggerire il Commento di Sant’Agostino a questa petizione, lasciando a voi ogni riflessione.

Nella Lettera 130 a Proba (dopo il 411) brevemente commenta la preghiera del Signore e a proposito dell’argomento che ci interessa scrive:Quando diciamo: Non c’indurre in tentazione, ci eccitiamo a chiedere che, abbandonati dal suo aiuto, non veniamo ingannati e non acconsentiamo ad alcuna tentazione né vi cediamo accasciati dal dolore.”[5]

Ma è nei sermoni 56 e 57 rivolti ai candidati al battesimo che si dilunga un po’ di più. Così nel primo sermone afferma:Non c’indurre in tentazione. Noi diciamo: Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori per i nostri peccati passati, che non possiamo fare in modo che non siano stati commessi. Tu puoi fare in modo di non ripetere i peccati che hai commessi; come potrai fare in modo che non siano stati commessi i peccati da te commessi? Per i peccati già commessi ti viene in aiuto la suddetta frase: Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. Per i peccati in cui puoi cadere, che cosa potrai fare? Non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male, cioè dalla stessa tentazione.”[6]

Più articolato è il commento nel secondo discorso:Non c’indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Sarà forse necessario anche ciò nell’altra vita? Non si dice: Non c’indurre in tentazione, se non dove ci può essere la tentazione. Nel libro del santo Giobbe leggiamo: Non è forse una tentazione la vita dell’uomo sulla terra? Che cosa dunque domandiamo? Ascoltate che cosa. L’apostolo Giacomo dice: Nessuno quando è tentato dica che è tentato da Dio. Egli parla della tentazione cattiva dalla quale uno è preso in trappola e diventa schiavo del diavolo; ecco di quale tentazione parla. C’è infatti un’altra tentazione che si chiama prova; di questa tentazione sta scritto: Il Signore Dio vostro vi mette alla prova per sapere se lo amate. Che vuol dire: per sapere? Vuol dire ” per far sì che sappiate “, poiché egli lo sa già. Con la tentazione, con cui uno è ingannato e sedotto, Dio non tenta nessuno;[7] è certo però che per un suo disegno profondo e misterioso, alcuni Dio li abbandona. Quando li abbandona, il tentatore sa bene che cosa fare, poiché in colui che Dio abbandona non incontra uno che gli resiste ma uno al quale fa subito vedere d’averlo in suo possesso. Perché dunque Dio non ci abbandoni, noi diciamo: Non ci far cadere in tentazione. Ciascuno in realtà – dice il medesimo apostolo Giacomo – è tentato dalla propria passione, dalla quale è attirato e preso in trappola.

La passione poi concepisce e genera il peccato e il peccato poi, quando è stato consumato, genera la morte. Che cosa ci ha insegnato? A combattere contro le passioni sensuali. Poiché nel santo battesimo voi lascerete tutti i peccati, ma rimarranno le passioni contro cui dovete combattere una volta rigenerati. Resterà infatti il conflitto in voi stessi. Non si deve temere alcun nemico esterno; vinci te stesso e il mondo sarà vinto. Che male ti potrà fare un tentatore esterno, sia esso il diavolo o un servo del diavolo? Chiunque ti proponga un guadagno per sedurti, non trovi in te la cupidigia; che male potrà farti allora chi ti propone un guadagno? Se invece in te si troverà la cupidigia, alla prospettiva del lucro, t’infiammerai e sarai preso al laccio d’un perfido adescamento. Se al contrario in te non sarà stata trovata la cupidigia, la trappola rimane tesa invano. Il tentatore ti mette davanti agli occhi una bellissima donna; se nel tuo intimo avrai la castità, sarà vinta l’iniquità della tentazione esterna. Affinché dunque non ti prenda in trappola col metterti sott’occhi la bellezza d’una donna a te estranea, combatti nel tuo interno con la tua sensualità. Tu non vedi il tuo nemico, ma senti la tua concupiscenza. Tu non vedi con gli occhi il diavolo, ma vedi l’oggetto che ti piace. Vinci nell’anima la tua sensualità. Combatti, continua a combattere, poiché è tuo giudice colui che ti ha rigenerato: ti ha proposto la lotta, ti prepara la corona. Ma siccome senza dubbio sarai vinto se non avrai Dio che t’aiuti, se egli ti abbandonerà, ecco perché nell’orazione tu dici: Non farci cadere in tentazione. La collera del [divino] giudice ha lasciato alcuni in balia delle loro passioni: lo afferma l’Apostolo: Dio li ha lasciati in balia dei desideri sfrenati dei loro cuori. In che modo li ha lasciati? Non facendo loro violenza, ma solo abbandonandoli.”[8]


[1] Non affronto le traduzioni nelle altre lingue. Dal 29 novembre 2020, I Domenica di Avvento, si userà nella liturgia la nuova traduzione che, peraltro, da molte comunità è già usata.

[2]  “Per l’esposizione delle Scritture ci sono delle norme che, a quanto mi sembra, possono essere presentate validamente a chi si dedica al loro studio. Con esse lo studioso potrà ricavare profitto non solo dalla lettura di quel che scopersero altri nei passi oscuri delle sacre Lettere, ma egli stesso potrà diventarne interprete per altri ancora. Mi sono pertanto deciso a comporre questa trattazione per coloro che vogliono e sono in grado d’apprendere tali norme, e mi auguro che Dio, nostro Signore, non mi neghi nello scrivere i doni che è solito elargirmi allorché penso a tale argomento. Prima d’iniziare la trattazione credo però che sia necessario rispondere a quanti mi muoveranno critiche o me le avrebbero mosse se prima non mi fossi fatto dovere di tacitarli. Che se anche dopo questa premessa ci saranno di quelli che mi muoveranno critiche, essi per lo meno non riusciranno a turbare gli altri né a farli passare da un utile interessamento alla pigrizia, madre d’ignoranza: cosa che avrebbero potuto conseguire se si fossero trovati di fronte a persone indifese e impreparate.” Prologo, 1

[3] Vorrei far notare che il testo della Vulgata per esempio traduce letteralmente epiusion della petizione del pane con supersubstantialem, mentre il nostro testo latino da cotidianum che infatti è tradotto in italiano quotidiano: in entrambi i casi la traduzione è una interpretazione; in entrambi i casi accettabile dal sensus fidei della Chiesa.

[4] Nuovo Testamento Interlineare, testo greco di Nestle-Aland, traduzione interlineare di Flaminio Poggi. Con il testo della Vulgata Clementina e italiano della Nuovissima versione della bibbia, Ed. San Paolo, 2014, p. 42

[5] Lettera 130, 11.21, trad. italiana del NBA

[6] Sermo 56, 13.18, NBA

[7] “Beato l’uomo che resiste alla tentazione perché, dopo averla superata, riceverà la corona della vita, che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.
Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno. Ciascuno piuttosto è tentato dalle proprie passioni, che lo attraggono e lo seducono; poi le passioni concepiscono e generano il peccato, e il peccato, una volta commesso, produce la morte.
Non ingannatevi, fratelli miei carissimi; ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento. Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità, per essere una primizia delle sue creature. Lettera di Giacomo, 1, 12-18. Mentre l’uomo è provato da Dio (Es 16,4; Gdc 3,4; Gdt 8, 25-27; Sl 66,10; Gv 6,6) perché emerga quanto ha nel cuore (Gen 22,12; Dt 8,2.16; 13, 4; 2Cr 32,31; Ger 12,3; Lc 8,13) e risponda liberamente al suo amore (Es 20,20; Dal 26,2-3; Ger 20,12), la tentazione viene da Satana (qui; Gb 1,8-11; Mt 4,3 e par.) che induce al male con l’inganno (Gen 3,4-5; Gc 1,14-15) e porta l’uomo a tentare il suo Creatore (Es 17, 2.7, Nm 14,22; Dt 6,16; Dal 95,8-9; Is 7,11-12; Mt 16,1, 22,18; At 5,9; 15,10) D’altra parte essa è permessa da Dio (Gb 1,12; ICor 10,13) e necessaria per la salvezza (Sap 3,5-6; Sir 2,1-18) (…)Gesù accetta la sfida fino in fondo e trasmette la vittoria ai discepoli. Affrontare con Cristo nella preghiera vigilante; la tentazione, dalla seduzione del male alla tribolazione fino al martirio, purifica le intenzioni e riporta alla libertà; è la condizione della Chiesa e segno dell’autenticità della missione. La Bibbia, Scrutate le Scritture, San Paolo 2020, nota a Gc 1,13, p. 2934s.

[8] Sermo 57, 9.9, NBA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *