di Don Antonio De Maria

Essendo sacerdote dal 1987 ho vissuto il mio ministero liturgico accompagnato dalla II Edizione del Messale che ho cercato di vivere insieme alle mie comunità, senza fermarmi ad alcune sue parti, ed imparando a crescere nella fede, mettendomi in ascolto della lex credendi espressa dalla chiesa nella sua lex orandi; cercando il Signore anche nel mistero celebrato e, soprattutto, nella comunione ecclesiale, di quella comunità che celebra il rendimento di grazie insieme a me.

Mi sono accorto, tuttavia, e lo hanno fatto sicuramente insieme a me tanti miei confratelli, del pericolo di ridurre la celebrazione dell’Eucarestia ad un momento di devozione per il quale sapere a memoria le parole e ripeterle anche quando non è il mio momento, può far credere di entrare meglio nel mistero celebrato, ridotto all’atto della consacrazione e al mistero della Presenza reale, mentre tutto il resto è solo un devoto contorno, compresa la presenza di altri, indifferente per alcuni, sentimentale per altri.

La mancanza di una catechesi liturgica e l’ardore giovanile mi spingevano ad entrare, a volte delicatamente e a volte a gamba tesa, in conflitto con le persone, alle quali cercavo di spiegare che non era quello il modo di partecipare alla Messa e dandone le ragioni, il più semplicemente possibile. A volte funzionava, a volte rimandavo al proprio parroco: ma capitava che fosse proprio la prassi celebrativa della propria parrocchia a generare tale confusione.

Forse sta qui la ragione dell’insistenza della Conferenza Episcopale perché la III edizione del Messale fosse l’occasione non solo per la presentazione dei pochi e in fin dei conti irrilevanti cambiamenti (nonostante la disinformazione fornita dai mezzi di comunicazione ma anche da qualche confratello) ma soprattutto per una catechesi che aiutasse la comunità a vivere quella actuosa participatio di cui parla il Concilio e che esplicitasse la ricchezza teologica della liturgia.

Tutto questo avviene dopo 50 anni nei quali sia il magistero che la buona prassi dei gruppi liturgici e di alcuni movimenti e comunità ecclesiali ha fatto crescere molte comunità che hanno sperimentato ed educato la loro fede a partire dalla liturgia vissuta.

È molto importante anche la fatica degli uffici liturgici delle nostre Diocesi: suggerisco, infatti, gli articoli di don Pasquale Munzone che appariranno su questo periodico e l’intervento di padre Zappalà del 28 novembre, trasmesso in streaming.

I miei interventi avranno un taglio diverso e di supporto, se il Signore me ne darà la capacità.

Una casa dove abitare con Cristo…nell’attesa della sua venuta

Qual è il luogo del sacro? Dove l’incontro con Dio si fa certo, tra le tante immagini – i vitelli sacri – di Dio che si rincorrono in uno strano caleidoscopio? Egli è lo Sconosciuto che abita una luce inaccessibile (I Tm 6,16). Eppure continua a risuonare l’affermazione del Prologo di Giovanni: Il Verbo si è fatto carne e pose la sua tenda in mezzo a noi. “Dove posso trovarlo veramente, dove posso trovare Lui e non soltanto pensieri su di Lui?”[1] Queste immagini di Cristo, nella loro parzialità, si assomigliano tutte, essendo proiezioni, autoritratti idealizzati di chi le ha escogitate. “E la risposta allora? Colui che si è fatto carne è restato carne. Egli è concreto. (…) La Chiesa è il nuovo, grande soggetto, nel quale si toccano passato e presente, soggetto e oggetto. È la nostra contemporaneità con Cristo; non ce n’è altra.”[2]

La fede non è una spiritualità alla quale aderisco scegliendo ciò che più mi piace: implica l’appartenenza ad una totalità che si esprime nella voce concreta, vivente della Chiesa. Essa parla, grida, implora, si nutre con le parole della fede. Essa è il segno concreto, sacramentale, vivo, della presenza del Cristo tra gli uomini esprimendone la totalità: per questo, a differenza delle sette che compiono una scelta, frammentandosi, essa è Cattolica, unità del Tutto, che è più della somma delle sue parti. In lei due più due fa Uno.

La liturgia è il suo ansimare nella fatica del cammino[3], il suo parlare, il suo dirsi e il suo darsi, il suo piangere e il suo ridere, il suo silenzio e il suo canto, il suo convivere e l’ascoltare, il suo mangiare e colloquiare: la Chiesa nella sua totalità o nel palpito fragile di una piccola comunità è il soggetto della sua stessa liturgia, in cui, ancora una volta, cielo e terra si incontrano e Colui che ha fatto tutte le cose continua a dimorare, fatto carne, la carne degli uomini di ogni luogo e cultura, di ogni tempo e generazione (non c’è più giudeo né greco, schiavo o libero, maschio e femmina). Qui Cristo si fa concreto nella sua morte e nella sua resurrezione; nella continua gestazione del Soffio che fa nuovo l’uomo e tutta la creazione, nell’attesa della Sua venuta. Non c’è vera apologia del mistero della Chiesa che la sua stessa vita.

Per questo non va dietro, sempre pressata, alle spinte distruttive di coloro che ne vogliono recidere la tunica: la sua liturgia non è risposta ad alcuno e ne respiri il mistero quando ritorni, come dice Agostino, alle sue quotidiane preghiere. Li ne apprendi la vita e ne divieni partecipe: “Per questo ha anche voluto che si chiedesse a lui di non essere gettati nella tentazione, perché se non vi siamo abbandonati, a nessun costo ci allontaniamo da lui. Poteva farci questa concessione anche senza che noi la implorassimo. Ma facendoci pregare volle renderci consapevoli da chi riceviamo questi benefici. Da chi infatti li riceviamo, se non da Colui che ci ha ordinato di chiederli? Dunque su questo argomento la Chiesa non ha bisogno di indugiare in laboriose disputazioni, ma di attendere alle sue preghiere quotidiane. Essa prega affinché gli infedeli credano: allora è Dio che converte alla fede. Essa prega perché i credenti perseverino: allora è Dio che dona la perseveranza fino alla fine.

Dio ebbe prescienza che Egli avrebbe fatto ciò. Questa è appunto la predestinazione dei santi, i quali Egli ha eletto in Cristo prima della creazione del mondo perché fossero santi e immacolati al suo cospetto in carità, predestinandoli per lui ad essere figli d’adozione attraverso Gesù Cristo, secondo quanto piacque alla sua volontà per lodare la gloria della sua grazia, nella quale li ha glorificati nel Figlio suo diletto. In lui hanno la redenzione grazie al suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia, che fece abbondare su di loro con ogni sapienza e prudenza per mostrare loro il mistero della sua volontà secondo la sua compiacenza, che Egli aveva prestabilito in lui nell’intento di comprendere in Cristo, al raggiungimento della pienezza dei tempi, tutte le cose che sono nei cieli e quelle che sono sulla terra. E in lui abbiamo ottenuto l’eredità, predestinati secondo il decreto di Colui che opera tutte le cose. Contro questa verità che squilla chiara come una tromba, quale uomo di fede accorta e vigilante potrebbe accettare una qualsiasi parola umana?”[4]

Qui, nell’atto della sua vita, dove si dà e diviene, come la vecchia signora del Pastore di Erma, sempre giovane; come il fiume carico d’acqua dalle cui rive vengono tratte le pietre squadrate della Torre; o risplendente come la Luna inondata dalla luce del Sole, nell’oscurità della terra dell’uomo, che vi può riposare, sapendo che mai veramente, definitivamente, Esso tramonta. Qui e non nelle false spiritualità di vecchi pastrani, memoria di un illustre passato, rattoppati dalla tentazione dell’Io, come se improvvisamente la vita si fosse fermata o nelle mode di alcuni, più preoccupati di piacere al mondo che a Dio. Non nelle personalissime elucubrazioni dei Minutella di sempre (con maggiore o minore vigore, echi di qualcosa già perso perché sottratto alla Vita, staccato dalla Vite). Qui, nella sua liturgia, nelle sue quotidiane preghiere, puoi incontrare il Signore Vivente e che dà la Vita. Per questo l’actuosa participatio è uno stare immerso con tutti i sensi del corpo e dello spirito nel mistero vivificante della Trinità, nell’unico Corpo di Cristo.


[1] J. Ratzinger, Natura e compito della teologia, Jaca Book, 1993, p. 56. Ratzinger sta rileggendo il racconto della conversione di Romano Guardini descritta in Der Kirche des Herrn (La Chiesa del Signore) del 1965

[2] Ivi.

[3] “Qui e lassù si cantano le lodi di Dio, ma qui da gente angustiata, lassù da gente libera da ogni turbamento; qui da gente che avanza verso la morte, lassù da gente viva per l’eternità; qui nella speranza, lassù nel reale possesso; qui in via, lassù in patria. Cantiamolo dunque adesso, fratelli miei, non per esprimere il gaudio del riposo ma per procurarci un sollievo nella fatica. Come sogliono cantare i viandanti, canta ma cammina; cantando consolati della fatica, ma non amare la pigrizia. Canta e cammina! Cosa vuol dire: cammina? Avanza, avanza nel bene, poiché, al dire dell’Apostolo ci sono certuni che progrediscono in peggio. Se tu progredisci, cammini; ma devi progredire nel bene, nella retta fede, nella buona condotta. Canta e cammina! Non uscire di strada, non volgerti indietro, non fermarti!”. Sant’Agostino, Discorso 256, 3 

[4] Sant’Agostino, Il dono della perseveranza, 7, 15. “Qui dunque, anche se preoccupati, cantiamo l’Alleluia per poterlo cantare esenti da preoccupazioni. Perché quaggiù preoccupati? E non vorresti che sia preoccupato quando leggo che la vita dell’uomo sulla terra è una tentazione? Non vorresti che sia preoccupato quando ancora mi si dice: Vegliate e pregate per non cadere in tentazione ? Non vorresti che sia preoccupato quando la tentazione è così diffusa che la stessa nostra preghiera ci obbliga a pronunciare quelle parole: Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori? Ogni giorno supplici, ogni giorno debitori. E vorresti che io resti tranquillo, quando ogni giorno debbo chiedere perdono per i peccati e aiuto di fronte ai pericoli? Riguardo ai peccati commessi dico: Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori. E subito dopo, in vista dei pericoli imminenti, aggiungo: Non ci indurre in tentazione. E come si trova nella serenità il popolo che, unendosi a me, grida: Liberaci dal male? Nonostante tutto questo però, o fratelli, sebbene cioè ci troviamo in mezzo al male, cantiamo l’Alleluia al nostro Dio perché è buono e ci libera dal male. E quando ti libera dal male, perché ti guardi attorno per individuare il male da cui ti libera? Non andare lontano, non sospingere l’occhio della tua mente di qua e di là. Ritorna in te, guarda a te. Ad essere ancora cattivo sei tu stesso; e quando Dio ti libera da te stesso, ti libera dal male. (…)Cantiamo Alleluia anche adesso, sebbene in mezzo a pericoli e a prove che ci provengono e dagli altri e da noi stessi. Dice l’Apostolo: Dio è fedele e non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze. Anche adesso, dunque, cantiamo Alleluia. L’uomo resta ancora dominio del peccato, ma Dio è fedele. Né dice che Dio non permetterà che siate tentati, ma: Non permetterà che siate tentati al di sopra delle vostre forze; al contrario, insieme con la tentazione, vi farà trovare una via d’uscita sicché possiate reggere . Sei in balia della tentazione, ma Dio ti farà trovare una via per uscirne e non perire nella tentazione.” Discorso 256, 1-3

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