di Don Antonino de Maria

Il 5 marzo, in pieno Sanremo, il Papa è andato in Iraq, terra dalla cultura antichissima, martoriata dalle guerre “di liberazione” dell’Occidente assetato di petrolio, in un contesto politico appesantito dalla cupidigia delle grandi potenze e dal nefasto (forse anch’esso pompato altrove) stato dell’Isis. Una terra dove Curdi, cristiani e sciiti hanno convissuto in pace, custodendosi fraternamente per secoli.

Il Papa è andato per sostenere la Chiesa Caldea Cattolica e non solo, ma anche per tessere quei legami del dialogo, a partire dall’idea di una fraternità umana che ha fondamento nel Creatore, quello professato nel Credo cristiano e, pur nelle differenze, riconosciuto nella professione di fede coranica e ebraica.

In fondo, dando finalmente compimento al desiderio di San Giovanni Paolo II, il Papa ha annunciato il vangelo e la santa dottrina cattolica con il linguaggio dell’ascolto e dell’accoglienza che è tipicamente evangelico e corrispondente al mistero e alla missione della Chiesa, come con riferimento patristico è scritto in Lumen Gentium 1: “Cristo è la luce delle genti: questo santo Concilio, adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il Vangelo ad ogni creatura (cfr. Mc 16,15), illuminare tutti gli uomini con la luce del Cristo che risplende sul volto della Chiesa. E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.” Illuminare gli uomini significa riconoscere il valore universale dell’Incarnazione, dove non c’è più giudeo né greco, proprio perché in Cristo si rende evidente l’unità del genere umano. Proprio perché crediamo in Cristo, la Chiesa, che ne è il quasi-sacramento, ha la missione di annunciare questa unità e stabilirla, per quanto è possibile, attraverso il caleidoscopio delle diversità, attraverso il dialogo.  Lo ribadisce Nostra Aetate all’inizio: “Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane.

Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, essa in primo luogo esamina qui tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. I vari popoli costituiscono infatti una sola comunità. Essi hanno una sola origine, poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra hanno anche un solo fine ultimo, Dio, la cui Provvidenza, le cui testimonianze di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti finché gli eletti saranno riuniti nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove le genti cammineranno nella sua luce.” E continua: “La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini. 

Tuttavia essa annuncia, ed è tenuta ad annunciare, il Cristo che è « via, verità e vita » (Gv 14,6), in cui gli uomini devono trovare la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato con se stesso tutte le cose. Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi.” Non si tratta di una nuova dottrina, quella del Concilio, ma di una riscoperta consapevolezza della missione della Chiesa e del suo mistero che ha radici profonde nella sua storia e nella sua teologia, cioè nella riflessione trinitaria e cristologica. È il punto di vista della Chiesa con la quale essa guarda l’umanità e i diversi percorsi religiosi, senza relativismi ma anche senza esclusivismi, cosciente che l’altro non debba necessariamente condividerlo. Pur riconoscendo un fondamento comune ineliminabile: la realtà dell’uomo come essere trascendente che guarda a sé con la curiosità di chi cerca il proprio vero volto: e questo vale anche per chi non professa alcun credo religioso.

 Il Papa ha parlato con questa consapevolezza e questa coscienza della grandezza e del limite del dialogo stesso.

Nel frattempo si è svolto Sanremo, ormai vecchio ed elefantiaco, senza fantasia, dove la musica è diventata il contorno alle banalità di una non cultura imbarazzante.

Mi fanno ridere quei leoni da tastiera che hanno preteso di equiparare Renato Zero, David Bowie o altri alla stupidità di Achille Lauro, improprio rampollo di una famiglia borghese e benestante o ai Maniskin (cosa vuol dire questo nome che nemmeno Orietta Berti ha saputo pronunciare?). Anti rivoluzione? I rivoluzionari, compreso Voltaire, credo che non avrebbero disdegnato di usare strumenti di detestazione (cioè di taglio della testa). Noi non vogliamo tagliare la testa a nessuno… Vorrei però che si tornasse alla cultura, quella nascosta nei teatri dove si vive senza splendidi guadagni ma si diffonde un umanesimo vero, dolente e gioioso, con una domanda di significato che non mi imbarazza anche quando mi deride, quando è diverso dal mio.

Abbiamo perso tempo, scusate, ma mi è stato chiesto: io che amo la libertà non temo l’assurdo liberticida di chi ha svuotato la libertà di senso. W il Papa.

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