di Don Antonino De Maria

Ci sono due modi per non comprendere la parrocchia: guardare gli organigrammi del suo “fare” e fermarsi ai suoi confini giurisdizionali.

Se per un attimo stiamo dentro al fluire della vita di una parrocchia ci rendiamo conto che essa è piena di vita personale, segnata da due direzioni: la liturgia che è ascolto e incontro con Cristo che parla e si offre al Padre per gli uomini, e l’abitare nel mondo, ormai non più segnato dalla “forma” cristiana, da ciò che vale per la Chiesa e che era innanzitutto educazione ad un modo di essere in Cristo.

Questi due ambiti spesso impongono fatiche, contraddizioni, schizofrenie, impatti difficili con la quotidianità; il rischio di una doppia vita e l’incapacità di cogliere il di più della vita cristiana, facendolo rifluire, con gioia e amore, nelle frenesie del quotidiano e nel paragone con una mentalità decisamente non-cristiana. Questo dramma è vissuto in modo diverso dalle diverse fasce dell’umano: forse è più sentito dai giovani, dalle coppie, dalle famiglie ma, in un modo nuovo, anche dagli anziani spesso soli e “rieducati” dai programmi televisivi che occupano le loro giornate.

Questa esperienza, unita alla fluidità dell’appartenenza, richiede una grande attenzione e un grande ascolto da parte di tutti nella parrocchia e non solo da parte del Parroco; a partire da una domanda: come l’esperienza liturgica del mistero pasquale sconquassa la vita personale e comunitaria, al punto da riconoscersi nelle vere ragioni del dirsi “cristiano”, diventando, perciò, annuncio vissuto e incarnato, cioè proposta cosciente non di una dottrina astratta o di un moralismo gridato ma di un Fatto liberante e libero?

C’è uno sguardo alle persone, ai volti che già scopre una strada per camminare insieme, per sostenersi nella difficoltà di essere cristiani in questo tempo, pur gioendo di esserlo. Questo sguardo cambia anche il modo in cui prepariamo le nostre iniziative o viviamo le nostre liturgie; l’iniziazione cristiana che non finisce con la sacramentalizzazione ma è professione di fede nel vissuto della carne del quotidiano: io Credo, io appartengo, io sono di Cristo e ne sono felice. Più questa dinamica è vera più siamo capaci di rendere ragione della nostra fede e della nostra speranza, senza opposizioni ma in ascolto dell’altro che spesso ci chiede di andare oltre, di non fermarsi, di ricomprendere l’umano perché Cristo torni a farsi carne in questa umanità e per questa umanità.

Mi è venuto in mente in questi giorni un brano della prima enciclica di San Giovanni Paolo II, Redemptor hominis che fece scalpore in quel 1979 ma che tracciava in continuità con il magistero di San Paolo VI e del breve pontificato di Giovanni Paolo I, un cammino che ci permette di arrivare al magistero di Papa Francesco, attraverso quello di Benedetto XVI: “ L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo Redentore – come è stato già detto – rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso. Questa è – se così è lecito esprimersi – la dimensione umana del mistero della Redenzione. In questa dimensione l’uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore propri della sua umanità. Nel mistero della Redenzione l’uomo diviene nuovamente «espresso» e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato! «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere – deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve «appropriarsi» ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso. Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del Creatore se «ha meritato di avere un tanto nobile e grande Redentore», se «Dio ha dato il suo Figlio», affinché egli, l’uomo, «non muoia, ma abbia la vita eterna». In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama Vangelo, cioè la Buona Novella. Si chiama anche Cristianesimo. Questo stupore giustifica la missione della Chiesa nel mondo, anche, e forse di più ancora, «nel mondo contemporaneo». Questo stupore, ed insieme persuasione e certezza, che nella sua profonda radice è la certezza della fede, ma che in modo nascosto e misterioso vivifica ogni aspetto dell’umanesimo autentico, è strettamente collegato a Cristo. Esso determina anche il suo posto, il suo – se così si può dire – particolare diritto di cittadinanza nella storia dell’uomo e dell’umanità. La Chiesa, che non cessa di contemplare l’insieme del mistero di Cristo, sa con tutta la certezza della fede, che la Redenzione, avvenuta per mezzo della croce, ha ridato definitivamente all’uomo la dignità ed il senso della sua esistenza nel mondo, senso che egli aveva in misura notevole perduto a causa del peccato. E perciò la Redenzione si è compiuta nel mistero pasquale, che attraverso la croce e la morte conduce alla risurrezione. Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra, è di dirigere lo sguardo dell’uomo, di indirizzare la coscienza e l’esperienza di tutta l’umanità verso il mistero di Cristo, di aiutare tutti gli uomini ad avere familiarità con la profondità della Redenzione, che avviene in Cristo Gesù. Contemporaneamente, si tocca anche la più profonda sfera dell’uomo, la sfera – intendiamo – dei cuori umani, delle coscienze umane e delle vicende umane.” Già questo n. 10 dell’enciclica dice molto della prospettiva da assumere nella vita e nella missione della Chiesa ma se Cristo è la principale via della Chiesa nella sua natura e nella sua missione “Proprio quest’uomo in tutta la verità della sua vita, nella sua coscienza, nella sua continua inclinazione al peccato ed insieme nella sua continua aspirazione alla verità, al bene, al bello, alla giustizia, all’amore, proprio un tale uomo aveva davanti agli occhi il Concilio Vaticano II allorché, delineando la sua situazione nel mondo contemporaneo, si portava sempre dalle componenti esterne di questa situazione alla verità immanente dell’umanità: «È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si contrastano a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura, egli sperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte, si accorge di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore. Sollecitato da molte attrattive, egli è costretto sempre a sceglierne qualcuna ed a rinunciare alle altre. Inoltre, debole e peccatore, non di raro fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe. Per cui soffre in se stesso una divisione, dalla quale provengono anche tante e così gravi discordie nella società (GS 10)». Quest’uomo è la via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla base di tutte quelle vie, per le quali deve camminare la Chiesa, perché l’uomo – ogni uomo senza eccezione alcuna – è stato redento da Cristo, perché con l’uomo – ciascun uomo senza eccezione alcuna – Cristo è in qualche modo unito, anche quando quell’uomo non è di ciò consapevole: «Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo» – ad ogni uomo e a tutti gli uomini – «… luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione». Essendo quindi quest’uomo la via della Chiesa, via della quotidiana sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la Chiesa del nostro tempo deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della di lui «situazione». Deve cioè essere consapevole delle sue possibilità, che prendono sempre nuovo orientamento e così si manifestano; la Chiesa deve, nello stesso tempo, essere consapevole delle minacce che si presentano all’uomo. Deve essere consapevole, altresì, di tutto ciò che sembra essere contrario allo sforzo perché «la vita umana divenga sempre più umana», perché tutto ciò che compone questa vita risponda alla vera dignità dell’uomo. In una parola, dev’essere consapevole di tutto ciò che è contrario a quel processo.” (n. 14).

Riprendere questo testo e farne il volano della nostra vita parrocchiale potrebbe essere un buon esito di questo cammino sinodale.

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