Dopo le limitazioni conseguenti alla diffusione della pandemia a Paternò nelle giornate del 3, 4 e 5 dicembre grandi festeggiamenti in onore di Santa Barbara. Il programma ricco di appuntamenti vede l’alternarsi di eventi liturgici e folcloristici. Il 3 dicembre c’è stata la prima giornata del Cereo, momento in cui le varette (cerei), opere d’arte scolpite nel legno dipinto d’oro, a rappresentanza delle varie corporazioni cittadine, vengono portati nei rioni e a sera sfilano assieme sul corso principale fino ad arrivare alla Chiesa di Santa Barbara.

Il 4 dicembre migliaia di persone hanno preso parte alla celebrazione in ricordo del martirio della Santa Patrona e successivamente hanno seguito il fercolo nella processione che si snodava per le vie del paese. Ad assistere alla processione e a consegnare un mazzo di fiori all’ingresso della chiesa di Santa Barbara c’erano anche diverse autorità, in particolare il presidente del Senato, Ignazio La Russa, accompagnato dal sindaco Nino Naso e dal prefetto di Catania Maria Carmela Librizzi, ed inoltre il presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, il deputato nazionale Francesco Ciancitto e la deputata regionale Martina Ardizzone.

Il 5 mattina l’Arcivescovo di Catania Mons. Luigi Renna ha presieduto il solenne pontificale con la partecipazione del clero del XII vicariato, delle autorità civili e militari.

Di seguito si riporta il testo integrale dell’omelia dell’Arcivescovo

Carissimi fratelli e sorelle,

distinte autorità,

tornano dopo il periodo della pandemia le manifestazioni di fede della festa di Santa Barbara, tanto attese e vive nella cultura e nella identità del popolo paternese. La fede e la devozione verso i santi nei secoli si sono arricchiti di elementi culturali tali da essere diventati una sola cosa sia con la memoria del santo, sia con la identità di un popolo.

Papa Francesco ha avuto parole di apprezzamento nei confronti di questi elementi, tali da non poter fare a meno di citarli e di condividerli. Ha scritto nella Evangelii gaudium: “Non è bene ignorare la decisiva importanza che riveste una cultura segnata dalla fede (…). Una cultura popolare evangelizzata contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine.” (n.68).

Lo stesso sguardo colmo di gratitudine è il mio, che si unisce al vostro per la prima volta nella festa di santa Barbara, cari paternesi. Una cultura popolare: è quella che appartiene a tutti i paternesi; una cultura popolare evangelizzata: che va cioè compresa alla luce del Vangelo, perché i martiri cristiani hanno dato la loro vita per non rinnegare Cristo e il suo Vangelo; che contiene valori di fede e di solidarietà: sono quelli che scopriamo quando scandagliamo la vita e il sacrificio dei Santi e ne comprendiamo l’attualità; per provocare una società più giusta ed onesta: perché i santi sono modelli di vita, non solo intercessori. Sulla scia di queste espressioni di papa Francesco mi voglio soffermare su un tratto peculiare della vita di Santa Barbara: l’origine della sua fede, cosa deve averla potuto attrarre per far sì che si convertisse alla fede cristiana.

Le poche notizie che sappiamo di lei collocano il suo martirio nel 306, nell’ultima grande persecuzione centro i cristiani, voluta dall’imperatore Diocleziano. Barbara è vissuta ed è stata martirizzata in una città che ha conosciuto molto presto il cristianesimo, Nicomedia, nell’attuale Turchia, molto probabilmente l’attuale Izmit, importante centro vicinissimo all’antica Costantinopoli oggi Istanbul.

C’è un dato inconfutabile: a Nicomedia fu emesso nel 311, due anni prima dell’editto di Milano che tollerava tutte le religioni, un editto di tolleranza emanato dallo stesso Costantino verso i cristiani della città, nel quale si afferma che i credenti di questa nuova religione, che “erano stati presi da follia e non obbedivano più alle antiche usanze” ora “in nome di tale indulgenza, farebbero bene a pregare il loro Dio per la salute dell’Imperatore, per quella dello Stato per la loro città, affinché lo Stato possa continuare ad esistere ovunque integro e loro a vivere tranquilli nelle loro case”.

Santa Barbara era stata martirizzata pochi anni prima, ed era quindi nel numero di coloro che per la loro fede erano sopportati e ritenuti folli. Pensiamo a quanto disprezzo subivano allora i cristiani, con quanto coraggio rimanevano coerenti con il loro credo, con quanta pazienza accettavano di essere minoranza e di non contare nulla per la loro identità religiosa.

C’è un altro dato incontrovertibile: dai pochi tratti biografici della sua storia emerge che Barbara faceva parte della prima generazione cristiana della sua famiglia, perché suo padre era un convinto pagano. “Cristiani non si nasce, si diventa”: così affermava un antico scrittore cristiano, Tertulliano, e ricorda anche a noi che il cristianesimo diventa scelta di vita nel momento in cui una persona opta di farsi battezzare o di far battezzare i propri figli, di educarli nella fede, ma soprattutto di vivere in essa. Barbara ha conosciuto il cristianesimo, l’ha ritenuto degno di fede, ha iniziato il periodo esigente del catecumenato ed è stata battezzata.

Cosa avrà affascinato del cristianesimo questa fanciulla, in modo tale da ricevere quasi clandestinamente il battesimo e morire per questo suo credo? Cosa l’avrà affascinata del Vangelo? Questa domanda risuona attuale anche per noi: cosa ci affascina della nostra fede? Ritengo che questo sia l’interrogativo più elementare che può sorgere quando ci troviamo davanti ad esempi come quello di una donna che ha scelto di morire per la sua fede. Certamente anche lei avrà ascoltato il brano del Vangelo che è stato proclamato oggi, e che è la “magna charta” del cristianesimo, il discorso della montagna, chiamato così perché l’evangelista Matteo lo presenta come un discorso tenuto da Gesù su un’altura, così come fece Mosè che sul Sinai ricevette da Dio il Decalogo.

Le beatitudini sono la Legge nuova del cristianesimo, e sono tra i brani evangelici più decisivi per la nostra fede. Barbara sarà rimasta affascinata da quelle parole di Gesù Cristo, che dopo Duemila anni risultano nuove e attuali. Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli: la proclamazione della prima beatitudine sovverte ogni gerarchia, perché mette al primo posto i preferiti di Dio, che qui dimostra di non essere un arbitro imparziale, ma un Dio “di parte”, dei poveri e dei poveri di spirito, coloro che non hanno che Lui. Avrà sentito tutto il fascino, la nostra Barbara, vissuta in un’epoca violenta, di quelle parole che proclamavano beati i miti, che Gesù dice essere i veri padroni della terra, o quella che esalta i costruttori di pace, perché si possono considerare i veri figli di Dio; o la beatitudine degli afflitti e degli affamati di giustizia, perché Dio non lascerà cadere nel vuoto le loro lacrime e il loro impegno. Mentre subiva il martirio era certamente preparata, la nostra Santa Barbara, perché aveva ascoltato che i perseguitati per causa di Cristo sono beati e di essi è il regno dei cieli. Quella corona sul suo capo è quella di chi ha conquistato il regno di Dio ed è entrato in esso perché non ha voluto rinnegare il fascino di una fede abbracciata nonostante il padre, con la caparbietà dei santi.

Cosa augurarci allora mentre veneriamo santa Barbara? Di lasciarci affascinare dal vangelo e di portarci nel cuore questa domanda: “Cosa fa sì, nel Vangelo, che io resti cristiano e mi impegni ad essere tale?” Si riapriranno davanti agli occhi della nostra mente tante pagine della Parola e ci porteremo nel cuore un frammento di quel Vangelo che ha riempito la vita di Santa Barbara, al punto da considerare la sua esistenza di minor valore rispetto al suo legame a Cristo. Ci sentiremo spinti a lasciarci rievangelizzare, in un tempo in cui tutta l’Europa è divenuta terra di missione. Non dimenticheremo soprattutto la carità, che è la prova più vera di una fede coerente: l’impegno per i poveri sarà ovunque il nostro distintivo di credenti.

Mi piace concludere citando un’antica poesia sul Natale, di Giovanni Pascoli, intitolata “In Occidente”: essa ci dice tutta la novità che il Vangelo ha portato nella storia, agli umili soprattutto. Il poeta immagina che nella notte santa uno schiavo gladiatore di nome Geta sta morendo nel carcere:

  • “L’avean, col raffio, tratto dall’arena del circo;
  • e nello spolïario immondo
  • alcun nel collo gli aprì poi la vena.
  • Rantolava; il silenzio era profondo:
  • il cader lento d’una goccia rossa
  • solo restava del fragor del mondo”

Sta morendo solo; ma quella notte l’angelo annuncia la nascita di Cristo e la pace: “E venne bianco nella notte azzurra un angelo dal Cielo di Giudea, a nunzïar la pace” Nessuno lo ascolta nella città di Roma, all’infuori di Geta, il gladiatore morente:

  • E l’angelo passò candido e lento
  • per i taciti trivi, e dicea, Pace
  • sopra la terra!… Udì forse un lamento…
  • Vegliava, il Geta… Entrò l’angelo: Pace
  • disse. E nella infinita urbe de’ forti
  • sol quegli intese. E chiuse gli occhi in pace.

Che la pace annunciata agli umili e ai martiri di ogni tempo, trovi spazio nel nostro cuore, perché possiamo accoglierla con lo stesso slancio della santa martire di Nicomedia, la celeste patrona di Paternò.

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