di Agatino Cariola

Il titolo è usurato: da quando Erasmo ha utilizzato il sostantivo per assegnare alla follia il compito di guardare alle cose del mondo da un’altra prospettiva e di denunciarne i mali, il termine “elogio” è stato utilizzato per qualsiasi dimensione umana e per ogni soggetto. Eppure, non trovo miglior titolo per indicare il personaggio la cui figura è abbozzata appena nella parabola del buon samaritano. O forse c’è un altro termine, ed è scommessa sull’oste. Solo che qui è evidente il richiamo a Pascal o al Dio che – da creatore – si affida alla creatura.

Ma ordino i miei pensieri.

Il racconto di Luca è la risposta di Gesù alla domanda di un dottore della legge che lo voleva mettere alla prova. La domanda è insidiosa perché è mimetizzata. In primo luogo essa è formulata in prima persona («che devo fare per ereditare la vita eterna?»; «chi è il mio prossimo?»), come se fosse un problema esistenziale di una persona che chiede sostegno. L’uso della prima persona nei verbi e nell’aggettivazione, così come l’insistenza sugli interrogativi fondamentali della vita si vestono dell’espressione di un disagio personale al quale Gesù non può rimanere insensibile (come ai problemi di tutti coloro i quali nelle narrazioni evangeliche gli si rivolgono a scaricargli drammi personali e ne richiedono l’intervento).

Inoltre, la domanda sembra essere posta da un discepolo, sia per l’invocazione iniziale di «Maestro», che implica il riconoscimento a favore di Gesù della qualità dell’insegnamento, sia per quella richiesta di «vita eterna», che compendia l’annuncio del Regno. L’episodio si situa lungo il cammino di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, allorquando e dove la narrazione evangelica si completerà. Ma il dottore della legge si mostra ben informato dell’annuncio del Cristo ed assume le sembianze del discepolo. E davanti un amico che si professa allievo le difese di ognuno calano: da qui il secondo elemento di insidia della domanda.

Luca fa adottare a Gesù un modulo di stampo socratico in cui fa rispondere il suo interlocutore: prospetta un caso che oggi si direbbe “difficile”; vi mette come protagonista un samaritano, cioè l’abitante di un villaggio probabilmente vicino a quello in cui risiedeva lo stesso dottore della legge (poco prima si era narrato della cattiva accoglienza a Gesù in un territorio di samaritani); soprattutto, rovescia la domanda e non spiega chi è il prossimo, ma invita a farsi prossimo agli altri e per gli altri. Gesù mostra sempre abilità a spostare i termini del dilemma in cui è posto (come nell’episodio delle tasse dovute a Cesare) e non accetta di assecondare il gioco di chi intende porlo in difficoltà: egli eleva il campo del confronto e lo fa divenire altro da quello iniziale.

Il brano del buon samaritano ha due finali, entrambi lasciati incompiuti, come se fossero il secondo ed il terzo tempo di un film dei quali occorre ancora scrivere la trama. Il che significa anche che ogni lettore può/deve farsi il suo finale.

Il primo finale – e qui rovescio l’ordine della narrazione – è quello che riguarda il dottore della legge, invitato a fare lo stesso del samaritano. Se si considera che Gesù ha indicato quale figura positiva proprio l’abitante del villaggio vicino, in tale invito all’orgoglioso discendente di Mosè c’è tutta l’esaltazione del bene operato da coloro che si ritengono estranei al “circolo della legge” (così come sarà fatto dopo nel confronto tra il fariseo ed il pubblicano che si recano al tempio). Luca non dice cosa ha fatto il dottore della legge. Per ben due volte Gesù invita il dottore a fare qualcosa. A proposito del giovane ricco che chiede come avere la vita eterna, Marco racconta che Gesù lo ha guardato e lo ha amato. Ma anche il dottore della legge sarà stato amato, già nel momento in cui ha posto le domande. Di lui nel vangelo di Luca non si sa cosa abbia fatto: prenderà sul serio la lezione di Gesù o sarà rimasto nell’osservanza formale della legge e avrà continuato ad amare Dio ed il prossimo secondo l’insegnamento di Mosè, cioè a seguire la legge come fosse un fatto intellettuale e non un’attività concreta che esige le opere? In fondo è facile amare l’umanità e lo hanno fatto e lo fanno rivoluzionari di ogni tempo e campo. È difficile amare la singola persona e curare le piaghe di un solo uomo.

Comunque la sceneggiatura di questo finale è piuttosto scontata: ci si immagina un dottore della legge che si allontana sullo sfondo, attento probabilmente a studiare la legge e per questo dimentico dei problemi di chi gli sta vicino. Come facciamo noi, del resto, tante volte.

Molto più interessante è il secondo finale, quello che riguarda l’oste. Il samaritano investe su di lui, gli affida il ferito che è sempre lì «mezzo morto», gli dà soldi, e gli propone di assistere anche lui la vittima della violenza: «abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno». Lo anticipavo: è una scommessa per tutti i protagonisti della storia.

Il racconto può essere continuato con gli esiti più diversi: ritornerà il samaritano? vorrà o potrà ritornare? sarà in grado di pagare le spese suppletive? chiederà una rendicontazione o si accontenterà del saldo presentatogli?

E l’oste? ha curato il ferito o, appena il samaritano è ripartito, lo ha buttato fuori sulla strada tenendosi i soldi avuti? ha seguito le indicazioni del samaritano? e per quando e per quanto? come ha deciso se e quali cure prestare? ha mai avuto il dubbio che il samaritano non tornasse? ha barato sul conto o si è mantenuto corretto? e così via.

In questo finale mi affascina il fatto che il samaritano non è solo: potrebbe forse dire che lo stesso riconosce di non poter essere solo, ma che di necessità la sua attività deve essere completata da altri. Ed allora coinvolge altri nella sua opera perché la continuino. Egli è certo un maestro perché insegna come fare e lo fa per primo. Ma poi deve cercarsi allievi e confidare in loro: quell’imprenditore del bene che è il samaritano della parabola non sa nemmeno lui se l’oste lo seguirà o, al contrario, rimarrà indifferente alla sua proposta.

I personaggi che si muovono sulla scena sono entrambi carichi di enigmi e portano appieno la loro umanità. Il samaritano deve a sua volta chiedere aiuto e scommette su un oste; quest’ultimo è coinvolto nell’opera iniziata da altri e deve decidere se investirvi il suo tempo e le sue risorse. Il legame tra i due è la fiducia: l’oste deve fidarsi che il samaritano ritorni e lo rimborsi; il soggetto simbolo della sollecitudine umana deve fidarsi di un altro e perdere così il ruolo di unico protagonista, perché ora c’è un comprimario accanto a lui.

Ecco perché l’oste va elogiato, è colui che crede al samaritano e ne continua l’opera.

Secoli dopo Tommaso d’Aquino dirà che il bene si diffonde di per sé. Non so se aveva presente l’immagine dell’oste nel racconto sul samaritano. Oggi gli studiosi delle relazioni sociali puntano sul bene “fiducia” quale presupposto per il funzionamento di ogni organizzazione umana, persino della più semplice struttura economica, giacché senza fiducia nessuno investe in attività imprenditoriali, in finanziamenti, nel lancio di nuove iniziative. Sulla fiducia è fondato il rapporto politico tra elettori e governanti e tra i partiti che stanno assieme ad ogni livello di governo.

E la fiducia è investimento sul futuro, capacità di guardare avanti. Sotto il profilo teologico può accostarsi la fiducia ad una speranza che si fa operativa. Sotto il versante per così dire aziendale – inclusivo del campo economico come di quello politico – la fiducia comporta l’ammissione che la socialità umana è un valore sul quale inevitabilmente fondarsi.

Ecco, una società senza fiducia è una società desertificata. Mi vengono in mente le città siciliane, ricche di storie passate, ma oggi rassegnate, quasi scheletri di ciò che sono state, a loro modo «mezze morte». Interi palazzi e quartieri disabitati che fanno il paio con i terreni spesso incolti, territori violentati da un’edilizia selvaggia che ora mostra tutti i suoi limiti o dalle promesse di uno sviluppo industriale che non c’è mai stato e che ha lasciato strutture inutilizzate se non dirute, coste distrutte da un turismo rapace che alla fine non porta ricchezza, ambienti depredati ed inquinati; e poi tanti uomini e donne senza lavoro né iniziativa, privi di speranza e rassegnati ad essere “acquistati” alle prossime elezioni, figli scappati via, classi dirigenti sparite. La desertificazione che dai terreni è passata agli uomini.

Lo dico con tristezza: non possiamo aspettare più il «buon samaritano» che curi le nostre ferite; siamo noi i feriti, spesso anzi ci siamo feriti da soli. Siamo anche noi «mezzi morti» ed abbiamo bisogno di farci tutti osti che investono reciprocamente gli uni negli altri, in termini di risorse, di tempo, di energie, di fiducia. Dobbiamo fare il bene ed insegnarlo agli altri, senza paura di mostrare la nostra debolezza. Abbiamo necessità di pensare il futuro.

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