di Placido Antonio Sangiorgio

Nell’era mediale nostrana talune domande continuano a proporsi. Oltre informazione, controinformazione e fake news, c’è un orizzonte di senso verso il quale siamo chiamati ancora a interrogarci? Quale indirizzo vigoroso per la chiesa isolana dopo l’ormai annosa presa di posizione antimafia? E quale via da battere per essere coscienza vigile in terra a sé, regno di convivenza tra stato (formale) e antistato (assunto)? Sono le domande del tempo lento, che da noi è ancora possibile farci. Di chi vuol vedere ancora la tartaruga inseguire Achille e convincersi che possa superarlo. E proprio in questo paradosso si nasconde il limite di civiltà.

Forse le recenti nomine di vescovi siciliani, nel restituire il volto atteso di una chiesa fatta di uomini di riflessione, ascolto, dialogo, potrebbero essere il segnale più evidente di una forte presa di posizione contro taluni tratti stanchi (e di potere) di un istituto curiale che il nuovo mondo ha messo in crisi. Si assiste a un cristianesimo messo, pubblicamente, alle corde da quella civiltà che per millenni ne ha tratto linfa. E tutto ciò avviene nell’era digitale nella quale, non consumiamo più informazioni, bensì siamo informazione. E non è che il rifugio nell’onnivoro tecnologico sia la ricerca di risposte dell’uomo alla sua solitudine?

In tempo di più ampia cesura tra dimensione individuale (acuita dalla rappresentazione dell’ego) e dimensione comunitaria (di fatto quasi del tutto derubricata) da dove ripartire per trovare la più coerente cristiana nel tempo storico e nella vita politica? Se riusciamo a pensarci legati al tempo nell’era dell’immediatezza e della velocità.

Nell’ultimo Festival delle Religioni di Firenze, Sergio Givone, non a caso, ha sottolineato quanto la dimensione del tempo appartenga alla tradizione della chiesa. La giornata monastica, scandita in ore, ne è chiara testimonianza. Un tempo che nella sua apocalisse attende l’Evento. E non è forse utopia. La stessa che Massimo Cacciari, leggendo Kirkegaard, trova nel politico concetto di uguaglianza e che vuole desunto dalla religione. Uguali davanti a Dio e liberi. Il cristiano è infatti uomo libero, perché – riprendendo la lezione di Carlo Maria Martini – vive di fede che si interroga. In questo la distanza dall’Islam di sottomissione.

Libertà di poter accogliere il Cristus aeternus, il Cristo della fede cattolica di Sergio Quinzio, alternativo al più diffuso e largamente condiviso Cristus caritas e talvolta meno radicale, come ha sottolineato Salvatore Natoli in un convegno proprio sul pensatore di Alassio.

Interrogarsi sulle rinate colonne digitali di un periodico che ha fatto storia nella chiesa particolare e non soltanto a Catania – in questo tempo nuovo – ha ancora un senso. Un momento nel tempo storico per fermarsi e pensare l’oltre. Noi uomini liberi, assetati di verità, ne siamo certi.

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