di don Giuseppe Longo

La festa della santa Patrona Agata che, puntualmente ogni anno per tre giorni coinvolge migliaia di devoti, non solo è una finestra aperta sul bel salotto barocco siciliano di Piazza Duomo attraverso cui guardano catanesi e non, ma è anche la possibilità con la mediazione di un esempio di santità, la Vergine e martire catanese, di vivere oltre il senso del tempo l’incontro con Dio.

Una festa cristiana, quindi, che, con il rituale ripetersi annuale, diventa una finestra aperta sull’eternità.

La contemporaneità sempre più instabile e fuggevole sta caratterizzando l’uomo quale essere fragile, insicuro e soprattutto pauroso nei confronti di un futuro incerto determinato dall’inesorabile scorre del tempo, simbolo di presente imprendibile, sospeso tra un passato che non c’è più e un futuro che non c’è ancora. Il tempo, quindi, fa paura perché è precarietà e morte; spaventa il tempo storico e lineare perché porta sempre ad una fine. E proprio contro la corruzione del tempo, la liturgia delle grandi feste calendariali è ciclica, fuori del tempo in quanto eterno ritorno. L’uomo ha cercato di sfuggire alla memoria di un’originale caduta annullando la propria storia con l’abolizione periodica del tempo e la rigenerazione collettiva delle feste calendariali. Così il ritorno ciclico alla condizione primogenia permette ad ogni uomo, ad ogni Capodanno, una nuova esistenza. L’immersione esistenziale nell’eternità divina della festa abolisce il tempo profano.

La pietà popolare è un dato di fatto nella vita della Chiesa; pertanto va valorizzata in quanto strumento prezioso di esperienza e di interiorizzazione del mistero rivelato. Ma contestualmente, va educata perchè evidenzia anche inevitabili limiti, soprattutto in quelle espressioni inquinate da elementi non coerenti con la dottrina cattolica, che sfociano nella demolizione del sacro e nell’inneggiamento del profano, alimentando un errato rapporto tra l’uomo e la centralità del mistero cristiano.

Ogni nuova edizione della festa permette di riscoprire la pietà popolare come processo di inculturazione della fede cristiana, come rilettura popolare del Vangelo, e quindi come espressione di un popolo che si mette di fronte al Vangelo con le sue domande, le sue aspirazioni, la sua arte e le sue forme espressive.

“Nella pietà popolare si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi” (EG 123).

Ed in tal senso la Chiesa di Catania ha rivolto le proprie energie al recupero di una dimensione di fede all’interno della religiosità popolare per rendere attuale la testimonianza della martire Agata nella vita dei moltissimi devoti.

Bisogna sempre più far emergere che il rapporto e il dialogo di ogni catanese con la santa concittadina va inquadrato in un orizzonte dove la realizzazione dei desideri lasci il posto alla speranza.

Infatti i desideri sono l’esatto contrario della speranza cristiana. Il desiderio, di adamitica memoria (“Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza…” Gn 3,6), è caratteristica della creatura, che è de-limitata, e pertanto cerca di entrare in possesso di ciò che non ha e non gli appartiene. Mentre la speranza si nutre della certezza della realizzazione delle promesse di Dio che testardamente si ostina ad essere fedele alla parola data. La speranza, quindi, poggia sulla potenza di Dio, mentre il desiderio è espressione del vuoto dell’uomo.

Nell’edizione della festa di quest’anno l’Arcivescovo Mons. Salvatore Gristina e il Cardinale Leonardo Sandri hanno puntato la loro attenzione su un tema forte e potente: la libertà.

Rileggendo la pagina della passione riguardante l’interrogatorio di Agata – Quinziano, ad un certo punto, le chiese “di che condizione sei tu? La beata Agata rispose: Non solo sono nata libera, ma di nobile famiglia … Il console Quinziano disse: e se attesti di essere libera e nobile, perché mostri di vivere e vestire da schiava? Sant’Agata disse: Perché sono serva di Cristo, per questo mostro di essere schiava. Quinziano disse: Ma se sei veramente libera e nobile, perché volerti fare schiava? S. Agata disse: la massima libertà e nobiltà sta qui: nel dimostrare di essere servi di Cristo” – i due prelati hanno declinato la libertà nel servizio e donazione a Cristo.

Per meglio inquadrare il tema della libertà ci può rifare alle parole di Paolo in Galati 5,13: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri”.

Nell’uomo il miraggio della pienezza della libertà è diretta emanazione dell’assolutizzazione dell’io.

Si è liberi se non si dipende da nessuno, se si può fare tutto quello che si vuole. Ma proprio questa assolutizzazione dell’io è degradazione dell’uomo, non è conquista della libertà, è piuttosto il fallimento della libertà.

Bisogna inquadrare il problema della libertà alla luce della verità dell’uomo. Elevarsi al rango di divinità introduce nella menzogna. Infatti l’uomo non è un assoluto, quasi che l’io possa isolarsi e comportarsi solo secondo la propria volontà. È contro la verità dell’essere uomo, la cui verità è che, innanzitutto, si è creature, creature di Dio e si vive nella relazione con il Creatore. L’uomo, in quanto creatura, è essenzialmente un essere in relazionale, quindi dipendente da Dio. E solo accettando questa relazionalità si entra nella verità, altrimenti si cade nella menzogna.

Ma la relazionalità creaturale implica anche un altro tipo di relazione: siamo in relazione con Dio, ma siamo anche in relazione l’uno con l’altro.

Non c’è libertà contro l’altro. Se io mi assolutizzo, divento nemico dell’altro, non possiamo più convivere e tutta la vita diventa crudeltà, diventa fallimento, solo una libertà condivisa è una libertà umana.

Così accettando l’altro, accettando anche l’apparente limitazione che deriva alla personale libertà dal rispetto per quella dell’altro, ed inserendosi nella rete di dipendenze che si costituirà, finalmente, un’unica famiglia, un unico corpo mistico in cammino verso la liberazione comune.

Ma qual è la misura della condivisione della libertà dove ognuno possa trovare la propria libera espressione senza che nessuno si senta oppresso?

Partendo dal noto titolo pirandelliano “uno nessuno e centomila” emerge un uomo che immaginando, falsamente, di poter interpretare molti ruoli assumendo diverse personalità in realtà si trova nell’incapacità di trovare la propria identità, magari debordando e occupando spazi altrui.

Per comprendere meglio si deve fare ricorso a quella verità dell’essere, come riporta lo stesso Giovanni (8,32): “…e la verità vi farà liberi”.

È il momento, quindi, di scoprire la propria identità, di andare a scovare nelle proprie profondità – talvolta messe in ombra dalla scelta del quieto vivere – la capacità di muoversi verso la meta a cui si e chiamati con i propri mezzi, la forza e tutto l’entusiasmo che si ha.

Solo nella riscoperta della propria identità e vocazione si è in grado di comprendere lo spazio concesso, dove si può attuare pienamente e liberamente la verità del proprio essere (o del proprio io), evitando così di limitare gli spazi altrui.

La comprensione della propria vocazione fa si che il libero esercizio delle proprie funzioni possa essere complementare all’esplicitarsi delle capacità di tutte le altre identità, diventando così un servizio in grado di realizzare la propria libertà vissuta in comune.

La prima realtà da rispettare, quindi, è la verità: libertà contro la verità non è libertà. Servire l’uno all’altro crea il comune spazio della libertà.

Come detto la verità della creatura dice relazione col Creatore che determina il fine e quindi la vocazione di ogni creatura.

Pertanto la massima libertà si esprime nell’adesione alla volontà di Colui che ha posto in essere tutti.

Come aveva ben capito Agata che si rifiutò di accogliere la mentalità del mondo per mettersi al servizio di Cristo.

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