di Don Antonino De Maria

Sin dalla prima domenica di questa Quaresima, sono stato colpito dall’affermazione di alcuni bambini. Alla domanda del loro parroco su cosa fosse la Quaresima, essi risposero: entrare nel deserto con Cristo. Probabilmente sono parole sentite dal catechiste e ripetute quasi come atto di fede dai bambini, non pienamente comprese, prima che accadesse quello che stiamo vivendo. Cosa vuol dire in una società opulenta come la nostra, dove anche Dio è una ricchezza, a cui si finisce per abituarsi, devotamente, entrare nel deserto con Cristo?

Il deserto è il luogo della precarietà: non solo di quello che riempie abitualmente la nostra vita ma, nella sensazione di abbandono, anche la precarietà di Dio, perlomeno di quelle forme alle quali siamo abituati, con le quali Dio ci ha abituati nel suo instancabile donarsi.

È il luogo dell’Assenza e della spoliazione. E alla fine si comincia di nuovo a sentire fame. Lì il cuore che conosce il suo tesoro e lo cela viene messo alla prova. Mi colpisce sempre il fatto che è lo Spirito a condurci nel deserto. Lì nello stremo delle forze, dove sembra che tutto sia negazione si svela il segreto del cuore e si mostra la fede: non di solo pane, ma di ogni Sua parola.

Come quel salmista che grida: “ se tu non mi parli, sono come chi scende nella fossa.” (salmo 28, 1). Non è fame di una parola qualunque ma di una Parola viva, di una relazione viva, che riempia la vita, che la costituisca. C’è anche un altro salmo, il 44 (43), nel quale il salmista sembra lamentarsi con Dio per questo stato di precarietà, quasi di abbandono, che grida a Dio di svegliarsi. È il grido di domanda di un Volto che abbiamo sperimentato vicino e ora ci sembra, ingiustamente, lontano:

 “Tutto questo ci è accaduto
e non ti avevamo dimenticato,
non avevamo rinnegato la tua alleanza.

 Non si era vòlto indietro il nostro cuore,

i nostri passi non avevano abbandonato il tuo sentiero;

ma tu ci hai stritolati in un luogo di sciacalli
e ci hai avvolti nell’ombra di morte. Se avessimo dimenticato il nome del nostro Dio
e teso le mani verso un dio straniero, forse che Dio non lo avrebbe scoperto,
lui che conosce i segreti del cuore?

 Per te ogni giorno siamo messi a morte,
stimati come pecore da macello
.

Svégliati! Perché dormi, Signore?
Déstati, non respingerci per sempre!

Perché nascondi il tuo volto,
dimentichi la nostra miseria e oppressione
.

La nostra gola è immersa nella polvere,
il nostro ventre è incollato al suolo.

 Àlzati, vieni in nostro aiuto!
Salvaci per la tua misericordia!”

La risposta a questo grido è il mistero della Croce. In Cordula von Balthasar scrive:

La verità, che costituisce la misura della fede, è la morte di Dio per amore del mondo – per l’umanità e per ciascun membro di essa – nella notte di croce di Gesù Cristo. Tutte le fonti della grazia sgorgano da quella notte: fede, carità e speranza. Tutto ciò che io sono, in quanto sono qualcosa di più che un essere caduco e senza speranza, le cui illusioni sono tutte distrutte dalla morte, lo sono a causa di quella morte che mi apre l’accesso al Dio che appaga. Io fiorisco sul sepolcro del Dio che è morto per me, affondo le mie radici nel terreno della sua carne e del suo sangue. Perciò, l’amore che traggo nella fede, non può essere di natura diversa da quello del sepolto.”[1] Se fiorisco dalla sua morte allora la vita del cristiano è vivere per colui che è morto ed è risuscitato per noi[2], in quella forma d’amore che è “come un ‘a priori’ del comportamento cristiano, che pertanto ne è totalmente caratterizzato.”[3]

Tanto che Paolo riconosce che vive perché Cristo vive in Lui (Gal 2, 20). Ringraziare Dio per questo dono non è possibile senza impegnare tutta la propria esistenza. Non basta un semplice grazie: questa è la dinamica eucaristica della vita cristiana. Ringraziare per questo dono è offrire se stessi nell’offerta di Cristo al Padre.

Per questo Paolo può dire ancora di completare nella sua carne le sofferenze di Cristo, l’offerta di Cristo per tutta l’umanità: perché quel gesto che è accaduto “una volta per tutte” continua nella vita della Chiesa e del credente, come “la loro migliore possibilità, anzi la loro suprema manifestazione per Dio, e quindi come ciò che dev’essere scelto con assoluta libertà.

Il credente altro non sarebbe se non colui che ha compreso una tale possibilità, e la sceglie. (…) La fede cristiana è, con ogni possibile urgenza, l’anticipazione dell’offerta della mia vita a Cristo.”[4] La pienezza dell’essere cristiano è il martire, è Cristo. “Allora il diavolo lo lasciò ed ecco angeli gli si accostarono e lo servivano” (Mt 4, 11). Tutto allora diventa da parte di Dio a servizio di quella missione a cui ha associato ciascuno di noi.


[1] H. Urs von Balthasar, Cordula ovverosia il caso serio, Queriniana, Brescia 1974, p. 31

[2] 2 Cor 5, 14-15

[3] Cordula…, p. 28

[4] Ivi, p. 31

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