di Don Antonio De Maria

Sono nato in un’epoca nella quale abbiamo sperimentato il sorgere di movimenti per la difesa dei diritti delle minoranze o dei gruppi sui quali era esercitato un trattamento di discriminazione sociale per il colore della pelle, per l’appartenenza ad una etnia o per la diversità religiosa. I pellerossa, gli afroamericani, gli ispano americani o tutsi e hutu in Africa e le altre guerre tribali; musulmani e indù; il sistema di caste, indù e cristiani; il colonialismo nei suoi resti moderni, di Francia e Inghilterra; israeliani e palestinesi; musulmani e cristiani; gay e…. La lista sarebbe lunga e forse rischiamo di dimenticare qualche realtà. Combattere per i diritti dei Curdi o per la non discriminazione a causa della razza, del colore, del sesso o della religione è stato il momento più alto vissuto dalla mia generazione alla ricerca di una eguaglianza nel diritto e nella possibilità di contribuire alla costruzione buona di una società accogliente: un desiderio alto di verità e di giustizia, fatto di battaglie culturali, educative, di dialogo che non ha risparmiato le violenze verbali e fisiche, eppure sempre pronto ad uscire fuori dalla insignificante distinzione tra destra e sinistra.

Oggi i problemi non sono del tutto risolti: in alcune aree geografiche anzi si sono acutizzati e la violenza prende il posto della fatica culturale ed educativa di crescere un’umanità più libera e più consapevole del valore della persona umana.

Le battaglie per i diritti sono diventati un pretesto per una classe politica mediocre per legittimarsi e ottenere un consenso fondato sull’emotività, piuttosto che su scelte alte e concordate di convivenza e accoglienza, di riconoscimento della diversità come una ricchezza fondata non sull’omologazione, che diventa perciò a sua volta contrapposizione nei confronti di un fantomatico “altro” che sarebbe mio nemico solo perché non pensa come me, ma sul rispetto della persona umana. Ogni gruppo diventa perciò una sorta di sindacato, di partito politico che si oppone ad un altro partito politico, quello “di chi non la pensa come me”. L’ideologia torna ad essere un assoluto e non ci possono essere tanti assoluti, dunque, tutti debbono sottostare al mio diritto di assolutezza o finire in galera, diventando così a loro volta i nuovi discriminati.

I movimenti di discussione dei diritti si sono trasformati e divenuti “il mio diritto nega il tuo”: non è questo quello che chiamiamo democrazia e che le Carte costituzionali nate dopo la Seconda Guerra Mondiale hanno sancito. Un diritto che nega un altro diritto non è più un diritto ma una nuova tirannia.

Cosa abbiamo fatto noi cristiani, nella maggior parte? Abbiamo fatto delle battaglie di settore o ci siamo chiusi nelle sacrestie e abbiamo perso quel peso culturale ed educativo che, nonostante l’illuminismo anticristiano, continuavamo ad avere, seppur in misura minore, rispetto al passato.

Abbiamo lasciato che parole come giustizia, rispetto delle persone, della vita, diventassero gli slogans di chi concepisce la giustizia come l’affermazione di un mio diritto contro; non abbiamo più educato al rispetto della persona umana o ci siamo ridotti ad assistenti sociali.

Oggi di fronte ad una becera manifestazione di finto amore per la causa anti razzista, continuiamo a pensare, moralisticamente, che i buoni sono da un lato e i cattivi da un altro: una propaganda di basso rilievo che nemmeno ai tempi delle pietrate tra studenti era di così basso livello.

Forse c’è bisogno di una nuova capacità di generare cultura e vera educazione, anche educazione alla politica, per non restare impantanati nelle stesse categorie del nulla politico attuale.

C’è bisogno di un nuovo personalismo “cristiano” che non è tale perché qualificato e contrapposto ad un altro personalismo, ma perché nasce dall’esperienza cristiana di incontro con ogni uomo e ogni cultura umana; un incontro a volte traumatico ma che ha generato pian piano una nuova cultura dell’incontro e dell’accoglienza del buono, presente in ogni cultura umana, con un discernimento che nasce si dal Vangelo ma anche dall’esperienza vissuta.

Il cristianesimo non si identifica con nessuna cultura ma con una visione dell’uomo che ha come fondamento il mistero dell’Uomo-Dio, del Verbo fatto carne. Questo umanesimo cristiano è ancora, insieme all’annuncio della salvezza, il contributo che possiamo dare al pensiero attuale, alla contemporaneità. Continuare ad affermare che la Chiesa è ferma da 200 anni, continuare ad affermarlo all’interno del mondo ecclesiale, non solo è fuorviante perché identifica la dottrina, il depositum fidei, con la vita che nasce dallo Spirito e che concretizza nel tempo e nella storia questo depositum, ma, a volte, tende a giustificare una reductio alla mentalità comune che, di fatto, annulla ogni possibile contributo da parte nostra alla vita umana nella sua dinamica sociale attuale.

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