di Francesco Diego Tosto

Non possiamo negare che la “scuola a distanza” sia stata utile per assicurare agli studenti la continuazione dell’iter didattico interrotto a causa dell’epidemia. Piattaforme, videolezioni e verifiche hanno accompagnato per alcuni mesi docenti e alunni, i quali –sia gli uni che gli altri- si sono adeguati con buona efficacia alla nuova situazione. L’anno scolastico è stato salvato, tutti gli adempimenti sono stati e saranno soddisfatti (compresi gli esami) ogni estrema e spiacevole decisione evitata. Siamo allora pronti per il nuovo anno? Ripeteremo la stessa esperienza? Nella volontà del Ministro c’è ancora l’attività on-line? Questi gli interrogativi dei nostri giorni pre-estivi. Proviamo un po’ a riflettere.

La scuola è fatta di relazioni, di occhi che scrutano, di contatti che alimentano i rapporti. Dietro un computer, per quanti progressi oggi siano stati fatti, non siamo gli stessi, siamo finti! Come davanti ad una macchina da presa cerchiamo una perfezione innaturale: ogni parola pensata e detta arriva in ritardo, un sorriso può sembrare una smorfia, ogni tono di voce è solo quello alterato e restituito dalla piattaforma. Gli stessi alunni desiderano un contatto vero, trasparente; magari si sono ingenuamente sentiti più protetti da uno schermo circoscritto e che concedeva molto alle loro insicurezze, ma i loro gesti, i loro tentennamenti, le improvvise sordità, non mancavano di essere tanto eloquenti. La verità è semplice: gli studenti hanno voglia di imparare la vita e lo strumento non basta.

Lo scorso anno –era l’ultimo giorno di scuola- dopo i saluti finali, in un’atmosfera fraterna e gioiosa, con tutti pronti al “rompete le righe”, un ragazzo si avvicinò a me e dopo un affettuoso saluto mi chiese: “Professore, posso abbracciarla?”. Questo spontaneo desiderio, in tempi in cui il covid ancora non esisteva, compendia efficacemente il senso dell’insegnamento, dello stare in classe per costruire disegni di vita, progetti di solidarietà, speranze future. Cliccando un tasto facilmente ci collegheremo ma non sentiremo alcuna vera emozione, non percepiremo né il profumo della gioventù né il sapore della cultura.

Stare in classe –o come si dice oggi “in presenza” significa osservare l’attenzione di chi ascolta, di chi non riesce ad evitare l’espressione di un fastidio o, al contrario, di chi comunica un interesse, un compiacimento. Gli occhi degli alunni indicano una direzione, suggeriscono un orientamento; un vero professore si nutre di ciò, non può farne a meno. Un educatore, ispirato dal senso più nobile della sua missione, vuole esserci, deve esserci, stare dentro, non dirigere dall’esterno, non può avere l’animo del solista. Com’è formativo trattenersi tra i banchi e non considerare la cattedra un sipario pronto a dividere sé dagli altri! La scuola, cari amici lettori, è sintesi di comunicazione, di dialogo, di complicità, e tutto si rende possibile attraverso un incrocio di sguardi, un coinvolgimento di corpi e di anime protesi verso la formazione di una degna personalità.

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