di Don Antonino De Maria

Quello che, mi sembra, stia accadendo nella Chiesa, sia la perdita di un orizzonte veramente cristologico e dinamicamente incarnatorio. Siamo schiacciati tra il mondo (quel grossolano immanentismo del fare) e una pseudo-spirtualità che riduce la ricerca dell’Eterno, del valoriale divino a pratiche “sacre”, spesso frutto di fraintendimenti, almeno a livello del singolo credente fai da te.

Nel primo caso abbiamo paura di disturbare con questioni considerate confessionali la dinamica di un mondo sempre più lontano da noi, fino al punto da mettere la testa sotto terra, un po’ come lo struzzo, più preoccupati di non essere considerati “salviniani” che contenti di sapere di portare un contributo antropologico serio nella confusione del pluralismo mondano. Un contributo antropologico serio, cioè la capacità di porre questioni serie sull’uomo e che, non possiamo nasconderlo, non hanno in una qualunque ragione critica ma nell’esperienza dell’umano in Cristo, il proprio fondamento originario. Così non riusciamo ad andare oltre un “per favore sopportateci se siamo cristiani”. Anzi, come scrisse von Balthasar alla fine di Cordula: in fondo, in fondo, lottiamo per la stessa cosa.

Dall’altro lato c’è chi aborre il mondo della carne, cioè dello spessore dell’umano alla ricerca di qualcosa che sappia di eternità, che non si macchi con l’incertezza della storia o la mortalità sempre peccabile della nostra corporeità. Questa confusione pseudo spirituale, in realtà, vive lo scandalo dell’incarnazione, del mangiare il pane della vita, della predica di Cafarnao, nella quale troppo di umano, di terrestre si confonde con l’eterna immutabilità.

È un problema serio che nei secoli era equilibrato dalla pietà popolare: dallo splendore delle immagini delle Madonne con il Bimbo divino in braccio, magari nell’umanissimo gesto di succhiare il seno o nel tragico e doloroso nonché crudele mistero di Colei che sostiene il corpo morto del Figlio: un Figlio rimasto Dio nella sua morte, terribilmente umana. Equilibrato da una Chiesa che condivideva, non solo usava o dominava, lo spazio umano del pianto e della festa, della nascita e della morte, e che ora è invece aggrovigliata in distaccate recite di parole e canti, una sorta di enclave dove il tragico quotidiano resta fuori. Riti sacri di parole sacre che parlano senza vita, senza dare la vita.

In fondo reimparare una nuova forma di pastorale, di annuncio non significa altro che reimparare ad entrare nel tessuto della vita con Colui che è vivo, umanamente grande, divinamente piccolo. Rischiando il linciaggio della contraddizione e l’infangamento del trattare con chi di fango è fatto.

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