di Don Francesco Luvarà

Nella tradizione giudeo-cristiana il mistero del peccato consiste essenzialmente nella frattura dell’amicizia tra Dio creatore e la creatura umana; questa, inizialmente generata all’interno dell’armonia dell’Eden, si distacca dalla relazione filiale con Dio, perseguendo una realizzazione in autonomia. Questo distacco, che la pagina biblica descrive come “caduta”, espone l’uomo alla mercé della sua finitudine e lo porta a sperimentare – nella relazione con i suoi simili e con la natura – la corruzione spirituale e morale, la solitudine, la sofferenza e la morte, tutte espressioni della condizione tragica scaturita dal peccato.

Innumerevoli volte il racconto veterotestamentario riporta la reazione di Dio davanti a questa presa di posizione in negativo della libertà, descrivendo, con intensità narrativa, come l’indignazione del Creatore si mitiga in comprensione. Similmente a ciò che prova una madre che freme interiormente per i pericoli che corre il figlio, lo sdegno si trasforma in misericordia, il grido di oppressione del popolo è percepito come richiesta d’aiuto, la lontananza diviene desiderio e promessa di una nuova alleanza.

Lentamente nell’intuizione dei profeti va maturando la convinzione che l’uomo da sé, in tale autoalienazione, non è in grado di ritornare a Dio, in quanto le sue facoltà non sono sufficienti da sole a colmare la voragine creata dalla frattura del peccato; occorre una nuova creazione, una rigenerazione dell’antrhopos da parte del Creatore. Perciò si comincia a parlare, nella Scrittura, di un’alleanza nuova stavolta scritta da Dio sul cuore dell’uomo (cfr. Ger 31,31-34); si pensa che Dio darà all’uomo un cuore nuovo capace di ritornare a provare amore filiale per Dio (cfr. Ez 36,24-28). Cantando il “grande Hallèl” l’assemblea orante alterna infatti ad ogni menzione dell’opera salvifica di Dio l’espressione consolatoria «il suo amore è per sempre» (Sal 136).

Ma come e quando nascerà l’uomo dal cuore nuovo? Come e quando avverrà tutto questo?

Viene a delinearsi la figura di un giusto che riscatterà il popolo riportandolo all’amicizia vitale con Dio. Sarà definito “messia”, cioè un inviato consacrato da Dio. In tale sfondo appare un personaggio singolare, di difficile comprensione, ma denso di aspettative, quello del “servo sofferente”, il “servo di YHWH” (cfr. Is 42,1-4; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12) che salverà il popolo definitivamente. La sua peculiarità consisterà nel sacrificarsi per il popolo offrendosi come vittima di espiazione, cioè nel pagare con la propria vita innocente le conseguenze provocate dal peccato, al fine di recuperare totalmente l’uomo.

Ma chi può avere un amore così grande, un cuore così magnanimo? Solo un uomo innocente potrà sperare di rialzare il volto dell’uomo rivolgendolo nuovamente al volto di Dio. Un uomo pienamente uomo e soprattutto pienamente obbediente alla volontà del Padre e all’ordine della sua creazione. Chi può far rinascere Adamo se non un nuovo Adamo? È qui che si svela la vicenda pasquale del Messia Gesù; è qui che trova luce la Passio Christi di cui facciamo memoria nella liturgia della Settimana Santa, a partire dalla “Domenica delle Palme e della Passione del Signore”.

Se la missione fondamentale del Messia consiste nel riallacciare l’amicizia tra Dio e l’uomo, e questa nuova alleanza significa guarire il cuore dell’uomo ferito dal peccato, si spiega bene come la via necessaria e risolutiva sia quella della croce, cioè della passione e morte del Messia. Per tale strada il Figlio di Dio, pienamente uomo e pienamente Dio, raggiunge l’umano nella sua distanza più grande da Dio, cioè dentro la voragine del peccato. È l’unica via decisiva. Nel fare ciò Dio non aspetta che sia l’uomo a chiedere, ma quando ancora è nel peccato in Cristo viene a salvarlo (Rom 5,8).

Lungo le vie della Palestina e per le strade affollate di Gerusalemme, Gesù non teme di immergersi dentro l’oscurità del peccato umano; San Paolo non esita a dire che egli si fece peccato (cfr. 2Cor 5,21); non perde l’innocenza, ma ci riconduce all’innocenza originaria, rendendoci santi e immacolati nell’amore (cfr. Ef 1,4). In definitiva non è il peccato a dire l’ultima parola sull’esistenza umana, ma il suo opposto, cioè la dedizione del giusto, una dedizione che ha la forza di perdonare senza condizioni. Per questo l’evangelista Giovanni descrive la passione di Cristo come l’ora della gloria di Dio, cioè della manifestazione dell’amore incondizionato di Dio per l’uomo.

È tale dramma che celebriamo ogni anno nell’intensità liturgica che va dalla Domenica delle Palme al giorno di Pasqua, il mistero della prossimità di Dio che sente il dolore sofferente dell’uomo indigente e il suo grido, anche inconsapevole, che supplica liberazione, riscatto, redenzione. Gesù il Messia viene a darci una nuova alleanza, una vita nuova e uno Spirito nuovo dove la libertà umana ritrova l’armonia della relazione con Dio e le creature, dove la realizzazione di sé si coniuga con la cura per gli altri, dove lo stare nel mondo si associa alla responsabilità per il creato, dove, infine, il cammino verso il futuro si caratterizza come esistenza messianica, cioè donata.

È a questo dramma della Passio Christi che ciascun discepolo di Gesù partecipa, sostenuto dallo Spirito Paraclito. Uniti a Cristo nella sua passione, morte e risurrezione ci immergiamo dentro le ferite del cuore umano per spargere, con il servizio e la testimonianza fraterna, il sollievo della misericordia e della condivisione.

Ma ciò che, soprattutto, la Passione del Signore ci consegna è la vocazione a percorrere la “via del giusto”, cioè di un’esistenza connotata da una libertà che sa accogliere l’alterità di Dio e della fratellanza umana, in atteggiamento di reciprocità e di responsabilità e, se serve, di presa in carico e cura per gli uomini inquieti, feriti e isolati.

È questo il cammino di santità della comunità ecclesiale tutta protesa verso la gioia Pasquale, un cammino che accanto e insieme a Cristo si fa compagnia dell’uomo, di ogni uomo.

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