di Filadelfio Grasso

Il desiderio di vedere Sant’Agata

In questo caldo mese di agosto, mentre tutti cercano ristoro e riposo, i catanesi rivolgono il pensiero alla Patrona, Agata, la santa che protegge la città ai piedi dell’Etna.

Per il secondo anno consecutivo, però, le celebrazioni che ricordano il ritorno delle reliquie della Martire da Costantinopoli, debbono essere ridotte, molti appuntamenti tradizionali annullati del tutto: il Coronavirus non è ancora alle spalle ma si presenta in tutta la sua drammaticità e con insidie subdole che mettono a rischio la salute e la vita di tutti.

Nonostante questo, il bisogno di esprimere la propria fede è per ogni devoto una necessità improrogabile. Nell’espressione della devozione, nel rendere culto, tutto il corpo deve essere coinvolto in una gestualità che si avvale dei sensi. Proprio per questo i fedeli chiedono di poter “vedere” e “toccare” il busto reliquiario della loro Santuzza, chiedono di poter ricevere testimonianza da quel corpo (presente dentro la statua trecentesca) che oltre 1700 anni fa difese la fede in Cristo fino a spargere il proprio sangue.

Ricorsi storici

Non è la prima volta che per motivi gravi la festa subisce delle limitazioni o viene totalmente soppressa. Qualche volta è successo che proprio quando si sentiva più forte il bisogno di “incontrare” l’amata Sant’Agata, ci si è dovuti astenere dal farlo.

In epoca moderna, gli annali ci parlano di un fatto memorabile per la storia di Catania.

Nel marzo del 1743 si ebbe un focolaio di peste nella vicina città di Messina, quando una tartana proveniente dal Golfo di Lepanto con un carico di frumento, lana e stoffe, aveva fatto tappa nella città dello Stretto. L’equipaggio, a motivo di una morte sospetta avvenuta durante la traversata, fu messo in quarantena. Ma, nonostante tutto, il morbo di diffuse inesorabilmente e diversi centri della Sicilia nord orientale furono colpiti, dopo Messina.

Nei primi giorni di giugno in quella città si contavano 259 morti, destinati a crescere dopo la festa della Madonna della Lettera.

Una circolare del viceré Bartolomeo Corsini fu indirizzata alle deputazioni sanitarie delle principali città isolane per esortarle ad una scrupolosa vigilanza e attenzione nell’applicare le dovute precauzioni. Inoltre tutti i porti del regno dovevano attenzionare le imbarcazioni in entrata perché si correva il rischio che “seco portano spavento e terrore”.

Il ruolo della Suprema Deputazione Generale di Salute Pubblica, istituita affinché l’intervento dello Stato in materia sanitaria potesse essere stabile e non più occasionale e legato alle emergenze, fu di fondamentale importanza, poiché oltre a coordinare gli interventi sanitari e igienici, accettando la teoria del contagio (e allontanandosi dall’idea che la peste fosse un castigo divino), mise un freno ai fervori religiosi e impedì le celebrazioni all’interno delle chiese e le processioni. L’8 luglio, il viceré ordinò che tali pratiche dovevano essere sostituite con “pubblici voti”, ossia con la promessa di edificare un luogo di preghiera da intitolare alla Vergine o ai Santi, posticipando a tempi migliori un corteo per ricordare l’implorata liberazione dalla malefica piaga.

Sant’Agata e Catania

Sant’Agata, con la sua vita ci insegna l’amore per il prossimo. Viene descritta come buona e mite servitrice di Dio e dei fratelli. Ma ci insegna anche l’umiltà nell’accettare l’aiuto degli altri. Lei stessa si fa curare dal mistico messaggero (che la tradizione, in seguito, ha identificato con l’apostolo Pietro), quando dolente stava in carcere dopo i tormenti ricevuti dai carnefici, nell’attesa di pervenire felicemente alla gloria infinita del Maestro buono.

I catanesi e tutti i suoi devoti sparsi nel mondo, a Lei si affidano quando sono afflitti dalle immancabili preoccupazioni e dai pericoli che la vita mette davanti al cammino di ogni uomo. Ad Agata si rivolgono così come si potrebbe fare con un’amica o una sorella.

Anche in quel terribile anno 1743, quando il pericolo di una epidemia spaventosa si fece prossimo, i catanesi angustiati e quasi rassegnati, invocarono la Santa per evitare il contagio. In quei giorni d’estate, raccontano le cronache, qualche catanese si sentì male, accusò febbri e sintomi riconducibili alla temuta pestilenza. Ma gli stessi annali puntualizzano che non morì nessuno e che nel giro di poche settimane il temuto flagello fu scongiurato.

Qualche mese dopo, con gran concorso di popolo e su disposizione del Senato, si decise di erigere in fondo alla Strada nuova (oggi via Vittorio Emanuele) dove a oriente finiva il centro abitato, un monumento alla Santa Concittadina. Su una colonna presa probabilmente dall’anfiteatro romano, lo scultore Michele Orlando realizzò, in marmo di Carrara, una statua di sant’Agata, raffigurata nell’atto di calpestare una idra, simbolo della peste, mentre posa il suo sguardo verso la città di Catania in segno di perenne protezione.

I catanesi, che si recavano ‘o chianu a statula (oggi piazza Martiri), i pescatori che anticamente si radunavano in questo largo per stendere le loro reti, e tutti coloro che alzando gli occhi contemplavano quella bianca figura, cantavano alla potente protettrice: Sant’Aita è misa na lu chianu e ccu la spata ‘n manu, varda sta cità… Tutti i paisaneddi a sciumi, a sciumi calunu, pp’aviri di sant’Aita l’amuri e la pietà.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *