di Don Antonino De Maria

Giudicare è un’arte difficile, per quanto nel nostro tempo è diventata così banale da distinguersi difficilmente dalla calunnia, dal “cortile”. Giudicare è un’arte che richiede, invece, umiltà e la fatica dell’ascolto dai fatti ai testimoni. Con troppa fretta assistiamo alla pretesa di esprimere giudizi su ogni cosa spesso evidenziando una grande frustrazione e una ischemia dell’intelligenza: ci si dà l’aria di chi sa tutto ed è al di sopra di tutto. In realtà nessuno è al di sopra di tutto e di tutti e siamo tutti connessi in una marea di relazioni, a volte caotiche, dove si perde il nesso tra il nostro io, la sua libertà e la realtà. Le relazioni divengono prigioni, schiavitù soffocanti ed esprimere un giudizio potrebbe sembrare il modo migliore per trarsi fuori, per liberarsi dalla stretta e dalla sensazione di essere corresponsabili di tutto. La libertà non può consistere in un fuggire dalla stretta: la libertà consiste nell’essere se stessi, oltre l’omologazione che attraversa ogni tratto dell’esistenza e la segna. L’uomo libero cerca pazientemente la verità per ricucire la bellezza dei rapporti tra persone nel desiderio di relazioni sane, capaci di respiro e di abbraccio, di riconciliazione: capaci di esprimere l’amabilità di sé e dell’altro. Il giudizio facile, infatti, uccide, la libertà nella verità riconosce l’amabilità dell’altro e ne ricerca la riconciliazione nell’esperienza del perdono.

Chiedere perdono è non accettare il veleno del giudizio, per costruire una nuova esperienza di libertà, di incontro, di sana accoglienza.

Credo che si possa intendere così la richiesta di perdono espressa da Benedetto XVI nel suo ultimo intervento sulla questione degli abusi nella diocesi di Monaco e Frisinga di cui è stato arcivescovo per 5 anni. Una fatica immane per un uomo di 95 anni costretto a fare i conti con migliaia di fogli in cui, come spesso accade, i “ si presume “, il sospetto, fanno da protagonisti in una mancanza di serie prove, di fatti documentati. Il giudizio di condanna è, in questo caso, preventivo: prima di una serena valutazione dei fatti. E Benedetto chiede perdono, a nome suo e di tutti, per l’errata valutazione dei fatti, delle storie; per quei casi in cui si è taciuto per lavare i panni in casa. Eppure non nasconde il coraggio di aver scoperchiato il vaso di Pandora e aver stretto le maglie su un fenomeno doloroso, tentando un ponte di pace e di riconciliazione con chi ha subito abusi da parte del clero o di chi ha svolto un servizio nelle nostre comunità. Perdono e chiedere perdono: per ricostruire e ridare vigore alla luce del vangelo che è salvezza per ogni uomo. Benedetto XVI non ha mai negato la sporcizia dentro la Chiesa e, allo stesso tempo, ha cercato di ascoltare, consolare, condividere il dolore e sostenere quanti hanno sofferto. Non è sfuggito agli schizzi di fango nell’affrontare la frana dell’umano: si tratta sempre di ricostruire, di ridonare umanità, bellezza alla vita, di ristabilire l’amabilità lavando nel sangue di Cristo ogni umanità lacerata. Senza fingere di essere al di sopra del problema.

Questo peccato è così grande da non poter essere perdonato? È la domanda di Caino. La domanda di sempre: siamo impossibilitati ad uscire dalle nostre esperienze di male? Siamo segnati senza possibilità di riscatto? Ciò che apre la porta ad un riscatto è il perdono di chi si assume amando la responsabilità di ridare amabilità all’altro. È quello che abbiamo ascoltato Venerdì Santo quando la via Crucis del Papa fu compiuta dalle esperienze dei carcerati, dove l’esperienza del male era profondamente vera, lacerante e l’esperienza dell’amore altrettanto forte da ricostruire la vita anche in carcere.

Il male si affronta sapendo che la verità libera amando: perché nessun uomo è semplicemente carnefice e la sua vita indegna: tutti siamo schiavi del male e bisognosi di libertà vera.

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