di Don Antonino De Maria

In questo tempo ci stiamo interrogando sull’ascolto: io mi interrogo sull’ascolto, sulla mia storia di ascolto; non è soltanto una domanda rivolta a me: è una domanda su di me. Perché ascoltare è mettersi di fronte ad un altro spalancati, come una finestra aperta che ha due orizzonti: uno che va fuori di te e un altro che permette ad altri di entrare in te. Per questo è un arrischiarsi che non cerca il pavonizzarsi di chi mette fiori davanti al davanzale chiuso di quella finestra e attende che l’altro immagini quale bellezza sta dietro quel quadro. Arrischiarsi alle domande dell’altro che si affaccia alla tua vita e affacciandosi si sporge con la sua, entra in una certa relazione con te, si espone a sua volta, anche se non ha chiaro ancora cosa cerchi. “ Chi si u giuvini da Chiesa? “ mi disse un giovane spavaldo e restammo seduti insieme andando oltre l’iniziale ragione di quel dialogo e divenne amicizia, scoperta senza pregiudizio, senza fretta. Avevo una grazia: non mi potevo permettere di avere pregiudizi. Stare in quella piazza, seduto a guardare e farsi guardare con libertà. Così u parrinu diventava uno in quell’ambiente, al quale si poteva dare ascolto, perché ascoltava e parlava senza frasi fatte, senza discorsi già scritti. E piange, e ride, e prega con la naturalezza dell’abitare nello stesso spazio, non chiuso in quel mondo a parte, quel mondo nel quale come in una casa di bambole siamo abituati a situarlo, lontano e in attesa di chi ha bisogno di lui per qualcosa, sconosciuto. Del quale non conosciamo nulla: mistero della sua utilità e del suo essere. A che serve quel prete?

Li, in quella piazza, non servi a nulla e non sei estraneo. Eppure qualcuno comincia a chiamarti con un altro nome, comincia a fidarsi: Padre… e a raccontarsi, a vivere con te.

Potrei raccontare anche di un certo clericalismo con il quale ho dovuto lottare per avere cittadinanza e rispetto e ascolto nella mia stessa chiesa. L’essere marchiati: tu sei di CL; tu sei questo, tu sei quello; tu non hai studiato al San Paolo; tu non hai frequentato il nostro seminario….tu sei stravagante. E più mi veniva chiesto di svolgere un compito nella Chiesa, più questo dava fastidio: “Tu fai ombra”, mi veniva detto.

Cos’è che mi ha salvato? La fede: l’immedesimazione con il Vangelo e la condivisione con una comunità. Non davanti ad altri ai quali ti limiti ad offrire un servizio ma fratelli e sorelle con i quali condividi l’esperienza di vita nuova in Cristo. Un cammino bello, a volte difficile, affaticato dai nostri peccati e benedetto dalla grazia.

Perché questo stile “sinodale” trova tanta difficoltà nel clero? Perché siamo figli di una cultura individualistica: non siamo abituati a lavorare insieme. Anzi appena diventiamo parroci siamo rallegrati del fatto che adesso siamo diventati vescovi e papi (citazione di un giovane prete di un’altra diocesi, fatta ad un incontro di sacerdoti).

Ci si lamenta della mancanza di fraternità: ma come si può costruire la fraternità senza libertà, serenità e parresia? Senza vero ascolto?

La fraternità emerge in un ambiente maturo e sereno nel quale non devo aver paura di espormi perché l’altro può usare quello che dico contro di me. Vivere la fraternità è anche saper ascoltare il dolore dell’altro senza giudicarlo; sapersi fare carico delle sue debolezze; sentirsi l’uno parte dell’altro. E la gente lo vede. A volte il prete perde la bussola perché non ha con chi sfogarsi, chi lo ascolti innanzitutto; chi si carichi della sua carne.

Si vive la fraternità quando si smette il formalismo cortese e ci si sente parte di un medesimo corpo, di una medesima famiglia: se ci comportiamo come figli unici non riusciremo mai a vivere quella fraternità che ci viene da ciò che siamo e non da ciò che condividiamo soltanto. La fraternità è più dell’amicizia, più del gruppo di interesse, più della comitiva. Si vive dentro una purificazione del cuore, una liberazione dall’egoismo e della libertà stessa. Se non sei libero dalle tue schiavitù l’altro non sarà mai tuo fratello ma un rivale.

È un tempo bello per essere cristiani: non è uno slogan sentito in bocca al nostro Arcivescovo; è una vera realtà; una possibilità di liberazione, di rinascita.

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