All’interno della chiesa del seminario arcivescovile di Catania, Mons. Luigi Renna ha incontrato i docenti di religione cattolica della Diocesi per parlare di “Amoris Laetitia” e affrontare con loro questioni delicate al centro del dibattito nelle scuole.

Ecco le sue parole:

Ai docenti di religione dell’Arcidiocesi di Catania (23.11.22)

Rischiarare: è in questo verbo che possiamo sintetizzare l’azione della Chiesa, fedele al Suo Signore, nei confronti del matrimonio lungo il corso dei secoli. Inizia con san Paolo, che in Efesini 5,21-33 rifonda il rapporto tra marito e moglie in relazione al mysterion di Cristo e della Chiesa, in una chiave squisitamente cristologica; continua con una teologia del sacramento del matrimonio che ha le sue tappe cruciali nella teologia di Agostino e nella  sintesi di san Tommaso[1]; si sistematizza maggiormente in età moderna, nel decreto Tametsi del Concilio di Trento, nel quale l’elemento giuridico è ancora preponderante rispetto a quello sacramentale; procede nel Catechismo Romano, nella teologia di san Roberto Bellarmino, nei grandi sviluppi inaugurati da Joseph Matthias Scheeben, nelle encicliche di fine secolo XIX e inizio secolo XX. Uno sguardo rapido alla storia della teologia e a quella del Magistero, in un cambiamento d’epoca come il nostro[2], è doveroso, non per fare semplicemente memoria, ma per comprendere come ci sia un continuo progresso nella comprensione della dottrina della Chiesa. La parola chiave per comprendere questo processo è “progresso”, non cambiamento, secondo quanto afferma un testo di capitale importanza della Tradizione, il Commonitorium di Vincenzo di Lerins (V sec.): “E’ caratteristico del progresso che ogni realtà si sviluppi intrinsecamente, mentre il cambiamento implica il passaggio di una data cosa a qualcos’altro di diverso. Occorre dunque che in ciascuno e in tutti, in ogni uomo come in tutta la Chiesa, l’intelligenza, la scienza e la sapienza crescano e progrediscano intensamente, nel corso delle età e delle generazioni. Ora questo progresso deve compiersi secondo la sua propria natura e cioè nello stesso senso, secondo gli stessi dogmi e lo stesso pensiero”[3]. Eleggendo come esempio lo sviluppo biologico della persona, che crescendo si trasforma nella statura e nell’aspetto, ma resta sempre se stessa, Vincenzo di Lerins conclude: “Così è bene che anche i dogmi della religione cristiana seguano questa legge di crescita, in modo da consolidarsi col passare degli anni, svilupparsi a loro tempo e approfondirsi nel corso delle generazioni”.[4] La Dei Verbum ribadisce in modo chiaro il senso di questo progresso quando parla della Tradizione: “Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità.” (DV 8) Similmente, in un testo poco citato di papa Benedetto XVI, nella Caritas in veritate, il papa afferma che il rapporto tra le encicliche sociali precedenti la Populorum progressio e la grande enciclica montiniana, non va considerato come una cesura, ma piuttosto va visto nella coerenza di una fedeltà dinamica: “Coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta. La dottrina sociale della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che emergono”. [5] Quanto appare più evidente nella dottrina sociale della Chiesa- evidenza lampante dato l’arco temporale di poco più di un secolo che essa copre- è presente nella dottrina sul matrimonio, con il semplice scopo di affermare “il primato della carità e della dimensione pastorale”, senza tradire la gerarchia della verità, valido secondo Evangelii gaudium (EG) sia per i dogmi di fede, sia per l’insegnamento morale. Con Amoris laetitia (AL) non ci troviamo quindi di fronte ad un insegnamento totalmente altro su matrimonio e famiglia, ma in una fase del progresso nella sua comprensione. Un apporto notevole è richiesto dalla stessa esortazione post-sinodale alla teologia morale, chiamata in causa in modo decisivo, quando le si chiede di “porre speciale attenzione nel mettere in evidenza e incoraggiare i valori più alti e centrali del Vangelo”[6]. La teologia morale si sente interpellata nel solco di quel primato della carità che il dettato conciliare le aveva affidato per un suo rinnovamento, in Optatam totius: “…maggiormente nutrita della Sacra Scrittura, illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo, chiamati a portare frutto nella carità per la vita del mondo”[7]

AL, parola della Chiesa sul matrimonio e la famiglia, vuole quindi affermare la dottrina del “mistero grande”- “secondo gli stessi dogmi e lo stesso pensiero”, direbbe Vincenzo di Lerins – nel nostro tempo, con un’attenzione materna e misericordiosa, rispondendo alle esigenze di carità pastorale che esso invoca. Dopo questa ampia premessa vogliamo interrogare il testo con tre domande:

  • Quale teologia del matrimonio ci viene consegnata da questa esortazione?
  • Quale rapporto tra il “dover essere” della vocazione matrimoniale e l’esistenza di un credente nelle sfide che il matrimonio e la famiglia pongono nel nostro tempo?
  • Quale è l’atteggiamento pastorale della Chiesa di fronte alla fragilità di storie di coppia?

Quale teologia del matrimonio emerge da AL?

Non è questo il luogo per ripercorrere le tappe di una ricerca teologica sul matrimonio e sulla famiglia che nel tempo si è emancipata da una visione meramente giuridica o solamente teologico-morale. Basti accennare che il secolo XX, preparato dalla teologia sacramentaria di Schebeen (1835-1888) è stato il grande secolo della teologia del matrimonio e della famiglia, come anche del magistero che ad essasi è riferito. Il dialogo tra teologia e magistero è stato molto proficuo. Dopo la Arcanum divinae sapientiae di Leone XIII del 1880, la Casti Connubii di Pio XI, nel 1930, ripropone lo schema agostiniano dei tria bona, dando il primato al bonum prolis, e recepisce la teologia dello Scheeben che presenta gli sposi come dei “consacrati” in virtù del sacramento. Non c’è però ancora integrazione tra la prospettiva antropologica personalista e la concezione del matrimonio ordinato alla procreazione. La nascita di movimenti di spiritualità coniugale, come le Equipe Notre Dame in Francia, nel 1939, e il Movimento di Cana in Canada, sono i laboratori di una spiritualità e di una pastorale familiare che si vanno sempre di più caratterizzando, anche se in feconda stagione pastorale non si ha ancora una solida base teologica. Quest’ultima si coagulerà attorno ai percorsi di riflessione aperti dal Concilio Vaticano II, di carattere antropologico, biblico, trinitario, cristologico, ecclesiologico, sacramentale. L’enciclica Humanae vitae, che sottolineerà le esigenze della procreazione responsabile, darà vita ad un vivace dibattito teologico, ma anche a percorsi spirituali ed educativi, nei quali le coppie hanno formato le loro coscienze negli ultimi 50 anni. Il Sinodo del 1980 con l’esortazione Familiaris consortio, non solo ci presenta una ricchissima teologia del matrimonio e della famiglia, ma costituisce il punto di svolta nel quale è la famiglia stessa ad essere soggetto pastorale. Tale soggettività ecclesiale e sociale scaturisce dalla chiara visione antropologica della persona, imago Dei, e da quella sacramentale che “trova una significativa espressione nell’alleanza sponsale, che si instaura tra l’uomo e la donna”. [8]

La ricchezza di questo magistero è tutta presenta nella AL, soprattutto nei capitoli III e IV, arricchita anche dalla relazione tra mistero trinitario e comunità familiare, come si evince dalla citazione di una catechesi del 2 aprile 2014: “Il matrimonio è l’icona dell’amore di Dio per noi. Anche Dio, infatti, è comunione: le tre Persone del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo vivono da sempre e per sempre in unità perfetta. Ed è proprio questo il mistero del Matrimonio: Dio fa dei due sposi una sola esistenza»[9]. Ma non è questa, a mio parere, il proprium della prospettiva teologica dell’esortazione, bensì il rimando al kerigma. E’ esso che dà l’incipit a tutta la trattazione del capitolo III, illuminando di luce nuova la teologia del matrimonio e della famiglia: “Davanti alle famiglie e in mezzo ad esse deve sempre nuovamente risuonare il primo annuncio, ciò che è «più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario», e «deve occupare il centro dell’attività evangelizzatrice». Mettere al centro il kerigma significa rispondere alle esigenze della evangelizzazione e allo stesso tempo riconoscere una gerarchia di verità. Non possiamo comprendere l’esortazione, anche nei punti che possono sembrarci più difficili da attuare, quelli del discernimento, se non facciamo nostra la centralità del kerigma e il richiamo alla centralità della fede, la sinergia tra fides e foedus[10]. Il contrario, cioè il far “scalare” in questa gerarchia di verità l’annuncio centrale della fede al secondo o terzo posto, porta, dice il papa alla “mera difesa di una dottrina fredda e senza vita”[11]. Sappiamo bene che nel Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, il papa ha indicato tra le circostanze che possono consentire la trattazione della causa di nullità con il processo più breve secondo i canoni 1683-1687, si annovera anche la mancanza di fede, che può generare la simulazione del consenso o l’errore che determina la volontà.[12]La gerarchia di verità nell’annuncio diventa anche gerarchia di ciò che vale la pena consolidare con l’aiuto della grazia del sacramento matrimoniale, vale a dire l’agape coniugale. Per questo motivo l’esortazione ci presenta una ricca riflessione sull’inno alla carità di 1 Cor 13, 4-7. In definitiva, AL illumina la teologia e la pastorale del matrimonio e della famiglia ricuperando la centralità del kerigma e della risposta di fede e di amore all’annuncio di salvezza. Ma chiediamoci ancora: di fronte alle vette dell’amore trinitario che si “specchia” nel matrimonio, quale è la situazione dell’uomo contemporaneo?

2.Quale rapporto tra il “dover essere” della vocazione matrimoniale e l’esistenza di un credente?

Il papa parla di piani differenti: sono quelli della vocazione, del dover essere, e quello del reale cammino di una persona, carica di fragilità. In verità questa non è una attenzioneche nasce in AL, ma è presente già nella FC, che parla di un avanzamento graduale verso l’integrazione dei doni di Dio. Ecco il testo di AL: Tuttavia, non è bene confondere piani differenti: non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica «un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio»[13]. La storicità della vita del credente si misura quotidianamente con l’altezzadella vocazione cristiana, per cui “conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita”[14]. E’ la legge della gradualità, che accompagna il cammino di conversione di ognuno, che non si ferma a dei gradi della legge “ritagliandoli” su misura per sé, ma con cuore sincero, secondo le sue possibilità, invocando costantemente l’aiuto della grazia, tende alla pienezza dell’amore. Jean Marie Lustigier, in un suo commento alla FC, affermava che ci potrebbe essere un modo “pelagiano” di intendere questa pedagogia, come se si trattasse di un apprendistato laborioso e basato solo sulle proprie forze. Invece esso comporta un vero cammino spirituale, che obbedisce al “rigore della grazia”, nel quale il dono suscita l’amore[15]. Tuttavia, di fronte alle sfide che sono in atto, la Chiesa è chiamata a fare un serio esame di coscienza sulle modalità con cui ha presentato le ragioni e le motivazioni che portano ad optare in favore del matrimonio e della famiglia, a tendere al dover essere. Molte strade sono già state percorse dalla pastorale familiare, e il papa le stigmatizza, additandole come le situazioni che “hanno aiutato a provocare ciò di cui oggi ci lamentiamo” [16]. In esse forse possiamo trovare tante nostre scelte di predicazione e catechesi: l’accentuazione del dovere della procreazione, il mancato accompagnamento dei nuovi sposi, la presentazione di un ideale teologico del matrimonio troppo astratto, l’insistenza solo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, lo scarso spazio dato alla formazione della coscienza.[17]Abbiamo trasmesso delle verità, ma forse abbiamo lasciato le persone sole con il loro fardello di responsabilità. Ma anche loro, le famiglie cristiane, non hanno ritenuto importante lasciarsi accompagnare nella loro vocazione coniugale.Su questo ultimo punto si innesta l’indicazione pastorale principale della AL: la formazione delle coscienze. La coscienza delle persone «dev’essere meglio coinvolta, nella prassi della Chiesa, in alcune situazioni che non realizzano oggettivamente la nostra concezione del matrimonio»[18]. Afferma ancora AL: «La coscienza può riconoscere non solo che una situazione non risponde obiettivamente alla proposta generale del Vangelo; può anche riconoscere con sincerità e onestà ciò che per il momento è la risposta generosa che si può offrire a Dio, e scoprire con una certa sicurezza morale che quella è la donazione che Dio stesso sta richiedendo in mezzo alla complessità concreta dei limiti, benché non sia ancora pienamente l’ideale oggettivo»[19]. La teologia orale, in un suo grande esponente, il padre Domenico Capone, ha affermato che  la coscienza ci fornisce “l’ultima norma in situazione”[20]; e Giovanni Paolo II nella Veritatis splendor ha parlato di «giudizio ultimo concreto»[21]. Quindi per il suo valore normativo, la coscienza obbliga e i suoi giudizi, fossero pure erronei in buona fede,  sono da rispettare.

 3.In che direzione la Chiesa è chiamata a ripensare la sua azione pastorale?

 “Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle”[22]. Di fronte alle sfide pastorali siamo chiamati a recuperare uno dei compiti che forse per troppo tempo abbiamo relegato ad una fascia ristretta di persone, i laici più impegnati, di cui ci siamo sempre detti, occorre formare le coscienze.

Il compito già delicato di accompagnare le coppie nella formazione di una famiglia e nell’educazione dei figli, richiede più attenzione quando si tratta di discernere la situazione di quelle coppie che vivono situazioni cosiddette “irregolari”. La scelta terminologica indica già lo spostamento dell’attenzione dallo status di conformità ad una norma, alla considerazione della persona nella sua storicità: è per questo che si parla di incompiutezza e di fragilitàdi queste coppie[23]. Si invita ad accompagnare, discernere e integrare la fragilità, in un contesto però in cui non si nega la bontà del matrimonio e si ribadisce che “ogni rottura del vincolo matrimoniale “è contro la volontà di Dio…”[24]. E’ un’attenzione pastorale “misericordiosa”, che non rimane tuttavia circoscritta alla celebrazione di un grande evento come il Giubileo, ma diventa prassi costante della Chiesa. Quello che viene riproposto è un personalismo etico che si coniuga con l’ermeneutica della misericordia, come il papa ha detto ai parroci di Roma: “La misericordia si fa carico della persona, la ascolta attentamente, si accosta con rispetto e con verità alla sua situazione, e l’accompagna nel cammino della riconciliazione”[25]. In concreto è una pastorale che distingue le situazioni, tiene conto dei condizionamenti e delle circostanze attenuanti, dà credito alla coscienza, integra con gradualità.

Distingue le situazioni, cioè le persone, che presentano ognuna un caso diverso dall’altro. Il papa, a mo’ di esempio, presenta una piccola “casistica”: una cosa è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, con provata fedeltà, dedizione generosa, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione; un’altra una unione che viene da un recente divorzio, che è come esposta alla fragilità e non si consolidata nel tempo[26]. La Chiesa riconosce situazioni in cui «l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione»[27]. E’ bene notare che in ciascun caso si accenna al riconoscimento del valore del matrimonio sacramento e alla propria responsabilità nella crisi della coppia, e quindi si esclude chi ha un atteggiamento contrario, oppure “ostenta un peccato oggettivo come se facesse parte dell’ideale cristiano, o vuole imporre qualcosa di diverso da quello che insegna la Chiesa…”[28].Costui ha semplicemente bisogno di riascoltare l’annuncio del Vangelo. Ma come è possibile “integrare” se la persona vive in una situazione oggettivamente disordinata? Semplicemente facendo un percorso di discernimento. Il discernimento è opera del pastore, che forma le coscienze, ma è anche impegno del credente. Scrive AL: “Il colloquio col sacerdote in foro interno, concorre alla formazione di un giudizio corretto su ciò che ostacola la possibilità di una più piena partecipazione alla vita della Chiesa e sui passi che possano favorirla a crescere”[29]. Da queste espressioni evinciamo che il dialogo non è prima di tutto la via per la soluzione di un caso, ma è a servizio della maturazione della coscienza, che “non potrà mai prescindere dalle esigenze di verità e di carità del Vangelo proposta della Chiesa”[30].

Il discernimento personale non viene mai sostituito dal discernimento del pastore, ma da esso viene illuminato e formato. Si tratta di aiutare le coscienze a decidere secondo il Vangelo, raggiungendo il bene possibile in una determinata situazione. Un bene possibile può essere anche quello di chi- nel caso sia un divorziato risposato- non potrà lasciare la nuova unione, né potrà astenersi dagli atti propri dei coniugi, come FC 84 chiede, perché questa astensione potrebbe mettere in pericolo la fedeltà e il bene dei figli, come GS 51 fa intravedere. Così la nota 329 della nostra esortazione. La Veritatis splendor ha previsto, in linea con la dottrina che l’ha preceduta, che il carattere universale della legge non è cancellato, ma piuttosto riconosciuto e valutato, quando “la ragione ne determina la applicazione nell’attualità concreta”[31]. E prosegue: “Il giudizio della coscienza afferma “ultimamente” la conformità di un certo comportamento concreto rispetto alla legge”[32]. La stessa enciclica prevede, in linea con la tradizione, che può accadere di commettere un male a causa di una ignoranza invincibile e di un errore di giudizio non colpevole “che non è imputabile alla persona che lo compie, ma che non cessa di essere un male”[33]. Nel discernimento, quindi, vengono chiamate in causa le circostanze attenuanti, che illuminano il giudizio sull’imputabilità e la responsabilità di un’azione: “Un giudizio negativo su una situazione oggettiva, non implica un giudizio sull’imputabilità e la colpevolezza della persona coinvolta”[34], afferma AL. La teologia morale ci presenta una coscienza che nel momento in cui decide si trova di fronte ad una complessità di situazioni che la casistica può solo in minima parte prevedere. I principi di azione con duplice effetto, il principio di totalità o terapeuticità, ad esempio, mostrano la necessità di contestualizzare il giudizio morale, non limitandosi a verificare l’applicazione della norma. Un atto umano è una realtà complessa, che non si può ridurre alla“materia”: occorre considerare la correttezza dell’atto in rapporto alle intenzioni e al grado di conoscenza che ciascuno ha del bene. La persona agendo decide di sé, con il concorso di questi tre elementi, denominati fonti della moralità[35]: l’atto materiale, l’intenzionalità che pone nel compierlo, la piena avvertenza di cosa esso significa e delle sue conseguenze. Scrive il teologo morale Maurizio Chiodi: “La riflessione teologico-morale non può partire da una legge che sarebbe conosciuta dalla ragionee che rimanda all’agire nella sua materialità, ma dal soggetto, nel suo profilo pratico”[36]. Ciò che è in gioco non è solo la questione di atti in sé intrinsecamente disordinati, ma l’imputabilità della responsabilità, così come lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica si esprime circa il ruolo delle circostanze attenuanti[37]. E’ un’attenzione che si sposta dall’atto materiale alla totalità della persona e alla complessità della sua coscienza. A questa tradizione, squisitamente personalista, si riferisce il papa quando afferma che “La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante”[38]. L’’esortazione post-sinodale rimanda ad una dottrina autorevole, quella di San Tommaso d’Aquino, che nella I-II della Summa Theologiae, nella quaestio 94, all’articolo 4 si chiede se la legge naturale sia unica per tutti. La risposta è affermativa, sulla base dell’auctoritas di Sant’ Isidoro[39]; ma poi Tommaso precisa che la ragione speculativa si comporta in modo più articolato rispetto alla ragione pratica. Infatti, rispetto ai principi universali della ragione, vi è una identica verità; nelle conclusioni particolari della ragione speculativa, la verità è uguale per tutti, ma non tutti la conoscono, e abbiamo perciò delle leggi positive che non corrispondo all’ordine morale naturale. A volte ci sono ostacoli che noi oggi definiremmo culturali nella ricezione di tale ordine, come ad esempio quello a cui accenna la Summa: Giulio Cesare racconta nel De bello gallico che i popoli germanici ritenevano che il furto non fosse un delitto. Infine ci sono le conclusioni particolari della ragione pratica, quelle che fa proprie ogni coscienza, per cui non c’è una norma percepita come identica per tuttie, se è identica, non è conosciuta allo stesso modo. Conclude Tommaso: “Per tutti è vero e giusto agire secondo ragione”[40]. E’ questa la cosiddetta “norma prossima di moralità” percepita dalla nostra coscienza come obbligante, che si avvicinerà ai principi universali e alle conclusioni particolari nella misura in cui la nostra ragione sarà rischiarata dalla verità.

Da questo discernimento scaturisce l’integrazione nella vita ecclesiale delle persone che nella loro esistenza sperimentano l’incompiutezza e la fragilità. Tale integrazione è il fine pastorale a cui tendono discernimento e accompagnamento: è la legge suprema della salus animarum. Sono diverse le forme di integrazione, ma non possiamo sottrarci alla verità di alcune espressioni: se non si è soggettivamente colpevoli, anche entro una situazione oggettiva, si potrebbe vivere in grazia di Dio, ricevendo anche l’aiuto della Chiesa. In certi casi, afferma la nota 351, si può ricevere anche l’aiuto dei Sacramenti, e si fa riferimento alla Penitenza e alla Eucarestia “non premio per i perfetti, ma generoso rimedioe alimento per i deboli”. L’ espressione “in certi casi”, non può portarci ad una norma nuova, ma apre la strada ad un discernimento sapiente e illuminato, fiducioso della grazia, ancorato al kerigma, animato dalla misericordia. E’ la stessa prospettiva del Concilio di Gerusalemme. Mi piace concludere con questa icona biblica, citata al n. 296, con un riferimento ad una omelia del papa. La questione affrontata nell’assemblea di Gerusalemme, in At 15, era sull’integrazione dei pagani convertiti e sulla richiesta di far sì che si sottoponessero alle usanze della Legge: era questione di integrazione o emarginazione. In quel momento gli apostoli si posero in ascolto dello Spirito, vissero quella che noi oggi chiamiamo sinodalità, ma si lasciarono soprattutto illuminare dalla verità gerarchicamente più alta, il kerigma: “Noi invece crediamo che per la grazia del Signore Gesù Cristo siamo salvati, così come loro” (At 15,11). Dalla centralità del kerigma viene rischiarata ogni questione morale nella vita della Chiesa, per guidare la sua azione pastorale con misericordia. La luce che illuminò gli apostoli a Gerusalemme è la stessa che illumina la Chiesa del nostro tempo, nell’annuncio del Vangelo del matrimonio e della famiglia.

 Alle domande su che cosa è consentito, se si può fare la comunione, se si può ricevere l’assoluzione sacramentale, la risposta è: avviamo un percorso. Ma per questo occorre educare tutti i fedeli. Non solo quelli provati dalla sofferenza di una situazione irregolare per portarli a un cammino di verità e di crescita, ma tutti i fedeli, perché si aprano all’inclusione,  convertano l’indignazione e lo scandalo facile in accoglienza cordiale di questi fratelli e sorelle in cammino.


[1] “Siccome i sacramenti conferiscono ciò che significano, si deve credere che con questo sacramento gli sposi ricevono la grazia per cui appartengono all’unione di Cristo e della Chiesa”. S.Th. Supplem. q. 42,1.

[2]Cf. FRANCESCO, Discorso ai rappresentanti del V convegno della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015.

[3] VINCENZO DI LERINO, Commonitorium I, 23: PL 50, 667-668.

[4]Ivi.

[5] BENEDETTO XVI, Lettera enciclica Caritas in veritate, 29 giugno 2009,12.

[6] FRANCESCO, Esortazione post-sinodale Amoris laetitia, 19 marzo 2016,311.

[7] CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Optatam totius, 16.

[8] GIOVANNI PAOLO II, Esortazione post-sinodale Familiaris consortio, 22 novembre 1981, 12

[9]Amoris laetitia, 121.

[10]Cf. FRANCESCO, Discorso in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota Romana, 17 giugno 2017.  In questo discorso il Santo Padre ha proprio sviluppato la centralità della fede nella vita dei coniugi e la necessità di preparali a riscoprire la fede.

[11]Ivi, 59.

[12]Cf. FRANCESCO, Lettera apostolica in forma di Motu proprio Mitis iudex Dominus Iesus, 15 agosto 2015, titolo V, art. 14 § 1 .

[13]Amoris laetitia, 122.

[14]Famiiaris consortio, 34.

[15]Cf. J.M. LUSTIGIER, Gradualità e conversione, in La Familiaris consortio, Ed. Vaticana, Roma 1982, 55.

[16]Amorislaetitia, 36.

[17]Cf. ivi, 36-37.

[18]AL 303.

[19]Ivi.

[20] D. Capone, L’uomo è persona in Cristo, EDB, Bologna 1973, 175-178.

[21] Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, doc.cit., 63.

[22]Ivi, 37.

[23] Ivi, 291.

[24] Ivi.

[25] FRANCESCO, Discorso ai Parroci di Roma, 6 marzo 2014.

[26]Cf. Amorislaetitia, 298.

[27]Ivi.

[28]Ivi, 297.

[29]Ivi, 300.

[30]Ivi.

[31] GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Veritatissplendor (6 agosto 1993), 59.

[32]Ivi

[33]Ivi, 63.

[34]Amoris laetitia, 302.

[35]Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, 1750.

[36] M. CHIODI, Teologia morale fondamentale,Queriniana, Brescia 2014, 442.

[37] “Le circostanze, ivi comprese le conseguenze, sono elementi secondari di un atto morale. Concorrono ad aggravare oppure a ridurre la bontà o la malizia morale degli atti umani (per esempio, l’ammontare di una rapina). Esse possono anche attenuare o aumentare la responsabilità di chi agisce (agire, per esempio, per paura della morte). Le circostanze, in sé, non possono modificare la qualità morale degli atti stessi; non possono rendere né buona né giusta un’azione intrinsecamente cattiva.” Catechismo della Chiesa Cattolica, 1755

[38]Amoris laetitia, 307

[39] TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae I-II, q. 94 art. 4

[40]Ivi

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