di Don Alfio Cristaudo

La nostra epoca è stata descritta come “società liquida” (Baumann), paralizzata nella paura di porre scelte durature e definitive, e nonostante ciò afferrata da una inaspettata “nostalgia del padre” (Recalcati), cioè dal desiderio – posto il definitivo superamento del modello patriarcale – di poggiare su spalle solide capaci di iniziare all’esperienza della vita.

Senso di paura o di disorientamento di fronte ai cambiamenti epocali in corso a volte si registrano anche nel vissuto ecclesiale, con la conseguenza di indurre alla tentazione di ripiegare lo sguardo verso il passato, alla ricerca, o nel rimpianto, di una identità solida. Ma a volte il senso della continuità ecclesiale con il passato rischia di restringersi a questioni di rievocazione nostalgica, insomma alla celebrazione museale dei “buoni tempi andati”: rischieremmo di trovarci – in quest’ultimo caso – a livello di quell’atteggiamento che è stato definito “fede morta dei vivi”.

Al contrario, vivere e sperimentare la Tradizione ecclesiale, nel suo significato più profondo, significa porsi in ascolto del racconto di fede elaborato, vissuto e trasmesso da coloro che ci hanno preceduto nella fede, non per ripeterlo pedissequamente, ma per reinterpretarlo alla luce dei problemi del nostro tempo: è questa invece la “fede viva dei morti”, che inserisce i credenti di ogni epoca all’interno dell’unico cammino della Tradizione ecclesiale, che non è statico, ma dinamico, e che progredisce non soltanto mediante l’insegnamento dei vescovi, ma anche attraverso l’investigazione razionale di quanti si dedicano allo studio e alla contemplazione dei misteri della fede, come pure attraverso l’esperienza spirituale dello stesso popolo di Dio, considerato tanto nei suoi singoli membri come nel suo complesso (cf. DV 8).

A questi testimoni della fede, a coloro cioè che hanno elaborato un’intelligenza più profonda dell’annunzio del Vangelo per renderlo attuale agli uomini del loro tempo – esperienza che continua a sopravvivere nei loro scritti, anche se insieme agli inevitabili condizionamenti culturali dell’epoca in cui si trovarono a operare –, noi intendiamo guardare alla stregua di maestri, perché, come si addice a qualsiasi opera insignita dell’aggettivo “classico”, essi non hanno mai smesso di dire quello che hanno da dire.

Questo è lo spirito con cui il Movimento Pro sanctitate di Catania intende avviare, presso la rettoria di S. Nicolò al Borgo, il ciclo annuale di lettura e commento degli scrittori cristiani antichi, puntando, come indica lo stesso titolo dell’iniziativa, a mettere in evidenza quanto, del loro messaggio, può continuare a detenere il sapore di “attualità”: Lettura dei Padri: antichi maestri dello spirito per l’uomo contemporaneo. Il tema del ciclo di quest’anno verterà sulle Confessioni di S. Agostino, opera che, a motivo del suo stile autobiografico, continua a destare curiosità e interesse nei lettori di ogni tempo.

Gli incontri settimanali, pensati nel numero di sei, abbracceranno soltanto i primi nove libri delle Confessioni, cioè la sezione più direttamente autobiografica, e avranno inizio giovedì 9 febbraio 2023 alle ore 20,00 con la presenza e le considerazioni introduttive dell’Arcivescovo, Mons. Luigi Renna. In ogni incontro, oltre alla trattazione delle tematiche affrontate nei singoli libri, rilette non solo dal punto di vista contestuale, ma anche in rapporto agli sviluppi della cultura contemporanea, alcuni attori presteranno la voce ad Agostino, offrendo la lettura delle pagine più suggestive dell’opera.

La perenne attualità di Agostino può essere misurata su più fronti: Agostino è innanzitutto l’uomo capace di raccontarsi, senza tacere i particolari più imbarazzanti del suo passato di adolescente e di uomo, particolari che potrebbero apparire addirittura inquietanti a quanti sono adusi a certi stereotipi agiografici; inoltre, al di là dell’esito delle sue valutazioni, Agostino dà prova di intraprendere un’analisi interiore, cioè un’indagine introspettiva dell’animo umano, partendo dalle fasi più precoci dell’infanzia.

Questo aspetto risulta oltremodo sorprendente se si considera che, quando mette mano alla composizione delle sue Confessioni, Agostino è già vescovo e, forse di fronte a qualche accusa volta a delegittimare la sua autorevolezza, egli non ha paura di raccontare il proprio passato nella verità, senza incorrere in toni giustificatori, insomma senza fare apologia della sua vita, piuttosto dando prova di una capacità di riconciliazione con le proprie ferite e fornendo il resoconto di una parabola esistenziale che viene restituita per quello che è, priva di coperture artefatte, nella sua vera turbolenza e nella sua frammentarietà. Un po’ tutti gli scrittori cristiani antichi continuano ad esercitare un certo fascino non perché si presentano come uomini inamidati, ma perché uomini “veri”.

E proprio nella dispersione o in quella che oggi definiremmo “frammentarietà esistenziale” consiste il tratto che più accomuna Agostino, vissuto nel lontano IV sec., con l’uomo contemporaneo: l’infanzia difficile, segnata dal rapporto con una madre eccessivamente presente e un padre quasi assente, le brigate adolescenziali e la scoperta del sesso, vissuto in modo compulsivo e disordinato, la brama di una realizzazione carrieristica incoraggiata dalla sete di successo, ma accompagnata, tappa dopo tappa, dall’insoddisfazione e dall’inquietudine.

Commuovono le descrizioni di Agostino bambino, e cioè la paura di incorrere nelle percosse del maestro, il ricorso strumentale a Dio per evitarle, il rapporto demotivato con la scuola e con lo studio, il godimento di letture quasi a confine con l’erotismo, l’accostamento deludente alla Bibbia e al contempo le attese carrieristiche dei genitori, soprattutto quelle del padre, il tentativo di sfuggire alla continua ingerenza della madre, al punto di ferirla in quello che più le stava a cuore, l’osservanza della fede cristiana, sicché Agostino abbandonerà per diversi anni il cattolicesimo e militerà tra le fila della setta dei manichei, usufruendo della loro influenza per ottenere posizioni di prestigio e coronando, almeno nei fatti, il sogno di una carriera che lo condurrà dalla natìa Africa proconsolare alla sede del potere imperiale, tra Roma e Milano.

In questa fase di peregrinazione lontana dalla fede cattolica, Agostino non manca di sorprenderci per la sua modernità, soprattutto quando ci informa circa i rapporti di “nonnismo” che, nell’intraprendere il cursus honorum, sussistevano tra i giovani in cerca di affermazione di sé, anche se egli tiene a precisare di essersi tenuto lontano dal commettere azioni e scherzi crudeli e proprio per questo di aver temuto di trovarsi estromesso dalla brigata degli amici, quando con toni appassionati descrive il vuoto esistenziale subentrato in lui alla morte dell’amico, di cui non ci fornisce il nome, o quando abbraccia lo scetticismo filosofico, affermando l’impossibilità della conoscenza della verità, unica e oggettiva per tutti, atteggiamento che oggi definiremmo “relativismo”.

La conversione di Agostino, indotta da diverse cause, ma in ultima analisi dalla grazia irresistibile di Dio, fu contemporaneamente un evento intellettuale ed esistenziale, dove un ruolo importante fu giocato dall’incontro con il vescovo di Milano, Ambrogio, che lo segnò non solo per la sua personale testimonianza di fede, ma soprattutto per il metodo adottato nella lettura e nell’interpretazione della Bibbia, che fino ad allora era apparsa ad Agostino tanto puerile e scarna. Attraverso un gioco di mediazioni e di incontri, costantemente sorretto dal desiderio di persistere nella sua ricerca appassionata, cominciano ad avere risposta tutti quei dilemmi che avevano tormentato Agostino fin da ragazzo, precludendogli di abbracciare la fede: se Dio esiste, da dove viene il male? E, se esiste Dio, che ne è del libero arbitrio dell’uomo? Come è fatto Dio? In che modo può essere presente in ogni luogo, senza essere contenuto dalle cose che ci circondano?

Agostino fu un uomo in ricerca, cioè in ricerca della verità e in ricerca di Dio, sicché, anche dopo averlo accolto nella fede, egli non si stancò mai di continuare a cercarlo, e ciò mediante l’investigazione razionale di quanto aveva accolto per fede. Del resto, nella fase della maturità, Agostino, non solo ebbe il coraggio di raccontarsi, ma forse fece anche di più: egli è stato anche capace di correggersi, di ritrattare pubblicamente tutti quei punti delle sue opere, e non erano poche, in cui riconosceva di essersi sbagliato o rispetto ai quali, col tempo, era giunto a soluzioni migliori. L’amante della verità non si arrocca nella difesa autoreferenziale delle proprie idee: quello di Agostino è un pensiero in continuo movimento.

Questa è la lezione che Agostino riconsegna ai credenti di ogni tempo: la fede intesa come investigazione e ricerca, cammino che, nonostante tutto, vale la pena di intraprendere e di percorrere fino in fondo, in seno alla comunità ecclesiale, sulla base dei problemi, dei vissuti personali, a volte anche tragici, oppure delle domande di senso che assediano, in modo diverso, il cuore di ogni uomo e di ogni credente.

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