Scrivere. Deriva da un verbo latino che significa incidere, lasciare impressi dei segni. Anche se oggi più che all’incisione la scrittura rimanda sempre più alla digitazione.E spesso alla digitazione automatica prodotta dall’imperante IA generativa. Di altra natura è l’esperienza che si realizza ancora nell’incontro con i frutti più maturi della creatività umana in ambito artistico letterario.
Che ai nostri giorni vede emergere per «le sue opere innovative e la sua prosa che danno voce all’indicibile» il premio Nobel per la Letteratura Jon Fosse.

Scrittore norvegese poliedrico, in particolare di romanzi e drammi teatrali, si dedica in maniera trasversale anche alla produzione di saggi, libri per ragazzi e poesie. Incontrare le sue opere significa porsi in una condizione di osservazione privilegiata, a tu per tu con parole semplici che scalfiscono la pagina di silenzio. Perché quello che emerge dalla lettura di un’opera in prosa di Fosse è la costante presenza di un’assenza. Assenza che abita i solchi bianchi tra le righe di cui è piena la pagina. Come una serie di incisioni. Pieni e vuoti improvvisi che spiazzano e sprofondano il lettore dentro il flusso del narrare. Tutto d’un fiato fino alla fine di un racconto senza fine. Senza punti fermi dalla prima all’ultima riga della storia.

È questo il caso del racconto Mattino e sera (La Nave di Teseo 2019) scritto da Fosse nel 2000 che gli è valso la definizione di erede di Beckett da parte del The New York Times. Lettura che è immersione totale, traversata senza sosta. Da una riva all’altra. Lungo il corso di una storia senza fine come il significato della vita. Infinito.
Racconto che fissa già nel titolo le coordinate esistenziali della vita agli estremi del giorno, mattino e sera, alba e tramonto. Luce che nasce, luce che muore. Con un intreccio quasi lineare: un pescatore di nome Johannes nasce, mattino; un pescatore di nome Johannes muore, sera.
A Fosse basta soltanto una giornata per ripercorrere l’intera esistenza di un pescatore vissuto tra i fiordi del Mare di Norvegia, di sua moglie Erna e della sua umile famiglia.Una sola giornata per dire tutta una vita. Un giorno apparentemente simile agli altri ma profondamente diverso. Unico perché racchiude una vita di sacrifici con sette figli da mantenere e segnata ad un certo punto da una serie di lutti. Dalla perdita della moglie che lascia Johannes solo nella casa al venir meno degli amici e dei vicini. Presenze che pur essendo morte incontrerà lo stesso giorno nella passeggiata abituale del mattino. Figure senza corpo che prefigurano un incontro ai limiti del comprensibile e lo conducono alla scoperta di sé stesso e della propria morte. Fino ai margini del mistero di tutta la vita, della nascita e della morte dell’uomo.

È senza dubbio un tentativo dagli esiti originali quello che Fosse ci consegna a partire dalle prime righe del racconto dove ripercorre il momento in cui viene al mondo Johannes.
Una narrazione sapientemente disarticolata come di chi ancora non sa dare nome alle esperienze e alle cose che vive. Così in un susseguirsi di frasi senza sosta accese dal continuo balbettio di stupore che accompagna il testo, la pagina si fa travaglio di parole che vengono man mano alla luce insieme alla vita che nasce:

“e poi un suono e qualcuno lo espelle come dentro qualcosa e poi le mani e le dita dentro altre dita si piegano e tutto ciò che è vecchio, tutto non è più presente in una vecchia casa d’acqua in un vecchio mare di mucillagini e stelle lucenti che si allontanano e si avvicinano e arrivano e nulla è distinto ma attraverso ogni cosa traspare una nitidezza che è giunta da una stella e in maniera morbida e attutisce il freddo la demarcazione della terra e poi questa quiete racchiusa in una grande quiete che giunge da là e non da dentro ma è qualcosa che doveva essere e che non scomparirà e la scomparsa non è altro che il vecchio e non è mai lo stesso e poi l’urlo chiaro e nitido è chiaro e nitido come una stellae poi come un appellativo un significato un vento questo respiro un respiro tranquillo e poi calma calma movimenti tranquilli e il panno morbido e il biancore non così vecchio”

Un flusso continuo che rende la prosa poetica di Fosse unosare incessante fino alla soglia del dire, un rischiare con le parole per tentare di narrare l’indicibile perché “a essere importante non è ciò che viene detto esplicitamente su questo o quello, è altro, è qualcosa che parla in silenzio dentro e dietro le frasi”.

Una modalità stilistica inedita di dare voce all’inquietudine dell’uomo contemporaneo che si fa domanda mediante una scrittura dall’articolazione inquieta perché tesa a lasciare spazio sulla pagina agli interrogativi ultimi della vita che emergono nel rapporto quotidiano dell’uomo con la realtà:

Ogni cosa riluce, dal cielo laggiù,
da ogni parete, da ogni sasso,
da ogni barca, tutto scintilla verso
di lui e adesso non ci capisce più
niente, perché oggi niente è come
è sempre stato, deve essere successo
qualcosa, ma che cosa?

Così le domande di senso lungo il racconto si fanno esse stesse racconto perché riflettono lo sguardo sensibile dell’autore norvegese verso l’abisso di attesa che è l’uomo:

“ognuno di noi ha un desiderio profondo dentro di sé, desideriamo sempre qualcosa e crediamo che ciò che desideriamo sia questo o quello, questa o quella persona, questa o quella cosa, ma in realtà desideriamo Dio, perché l’essere umano è una preghiera continua, una persona è una preghiera attraverso il suo desiderio”

Lo stesso Jon Fosse in un’intervista pubblicata sul quotidiano norvegese Vart Land confida che per sé stesso “scrivere è un modo per chiedere perdono”. Come pregare e desiderare di non finire nel nulla che assale il quotidiano. Un desiderio di eterno che vive di parole incise su pagineche lasciano spazio alla grammatica di un Altro.

“È la scrittura che mi ha trasformato e ha dissolto la mia riprovevole certezza, sostituendola con un’umile sicurezza di essere consegnato all’altro e nelle mani di quel ch’è altro. Ciò che io sono, io stesso, è quindi un io nella condizione della grazia dell’uno e di quel ch’è altro”.

Una coscienza quella dell’autore norvegese che penetra fino al mistero di Dio e del suo rapporto con gli uomini. Dentro il flusso della vita che rivive nel racconto in un ascolto senza fine. Senza punto.

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