di Don Carmelo Signorello

Mi permetto di proporre alla riflessione comune una mia sintesi adattata del lungo e denso articolo del teologo benedettino François Cassingena-Trévedy (monastero di Ligugé), considerato fra i più grandi scrittori cattolici della nostra epoca, che ritengo particolarmente ricco di spunti tanto profondi quanto inquietanti. Una riflessione sapienziale, come poche — anzi pochissime — ne sono state fatte da almeno un anno a questa parte. Su questo tema cruciale mi sembra urgente avviare una seria riflessione anche nella nostra Diocesi, che ha preferito altri argomenti formativi per i presbiteri, evidentemente ritenuti più significativi nel momento attuale per la pastorale e la vita delle nostre comunità…

Il monaco, conosciuto in Italia specialmente grazie alle sue pubblicazioni presso le edizioni Qiqajon, riflette sulla messa o, più esattamente sull’Eucaristia (c’è infatti una notevole sfumatura tra i due termini). Parlando sempre di messa — egli afferma — in realtà non abbiamo dimenticato l’Eucaristia? Non siamo continuamente distratti dall’entrare nel vertiginoso processo che ha inaugurato per noi la sera della sua passione, il gesto al tempo stesso così semplice e innovativo di Gesù?

È urgente recuperare il significato più autentico dell’Eucaristia. Dobbiamo passare dalla mia messa alla messa (che è già un passo considerevole), e poi dalla messa all’Eucaristia, che è l’opera di tutta una vita cristiana e di tutto il pellegrinaggio temporale della Chiesa verso il Regno. Dovremo passare dalla messa che provoca, che divide (per esempio a proposito della forma straordinaria del rito…), all’Eucaristia che è il «segno dell’unità» (Sacrosanctum Concilium, 47, citando Agostino).

Trattando questo «sì grande Sacramento» — Tantum ergo Sacramentum — abbiamo davvero fatto il passo personale ed ecclesiale dall’antico al nuovo, dall’arcaico all’escatologico, dall’abituale all’inaudito, dal religioso al rivoluzionario, dalla «religione» al cristianesimo? Oppure dobbiamo ancora conoscere il Dono di Dio (Gv 4,10), intravedere il significato dell’atto pasquale di Gesù che ci è stato trasmesso (1Cor 11,23), per renderci conto del carattere propriamente esplosivo della frazione del pane (Lc 24,35)?

Pensavamo che il «materialismo» sacramentale fosse scomparso da tempo: in realtà è ancora vivo, anzi sembra irrobustirsi, e spiega tutti gli aspetti primordiali della nostra religione non evangelizzata.

I sacramenti cristiani, gesti salvifici di Cristo identificati e costantemente approfonditi dalla Chiesa, attraversano la storia dell’uomo: lo stile della loro celebrazione così come la teologia che se ne fa. A cominciare dall’Eucaristia, che è il più grande tra questi, e giustamente perché è il più grande. Tantum ergo Sacramentum… Così, attraverso le epoche culturali, si può considerare di volta in volta una celebrazione paleocristiana, medievale, barocca, romantica, anteconciliare e postconciliare. Ed è ancora così che si sono sviluppate le successive teologie dell’Eucaristia: quella di Agostino, Pascasio Radberto, Tommaso d’Aquino, Suarez, Odo Casel (per fare solo qualche esempio). Nessuna ha avuto né avrà d’altronde l’ultima parola, poiché il gesto testamentario dell’uomo di Nazaret — il festino per celebrare il suo passaggio da questo mondo al Padre — continua tuttora a rivelare aspetti inediti…

Nel corso della storia, la grande tentazione che si annida nella nostra celebrazione, nella nostra teologia e nel nostro rapporto soggettivo con l’Eucaristia è il materialismo. È forse intorno all’Eucaristia che la tentazione «religiosa» si fa più forte: quella di ridurre il Vivente e la Vita a qualcosa che si fa, che si afferra, che si consuma, che si merita, che si possiede. È a proposito dell’Eucaristia che la regressione cristiana verso il «religioso» diventa più minacciosa, anche se questo «religioso» si ammanta con gli orpelli di un «sacro» i cui legami stranamente pagani hanno poco a che fare con la novità radicale — rivoluzionaria — che il cristianesimo delle origini ha instaurato.

Il corpo di Cristo non è una barretta energetica, né il sangue di Cristo è una tisana biologica. Ma non è forse vero che una concezione magica, utilitaristica ed egoistica dei sacramenti, particolarmente dell’Eucaristia, continua oggi ad ossessionare le profondità delle coscienze cristiane? I vasi sacri che giustamente usiamo nelle nostre liturgie non ci sono per limitare la Presenza. Il lessico stesso della «Presenza reale» non deve fuorviare: la res, che rinvia a una realtà viva, al grande reale, a Colui che è il Vero (1Gv 5,20), è quasi sempre inevitabilmente trascinata, a causa delle nostre manipolazioni, dal lato della «cosa». Ora, l’Eucaristia non è qualcosa, nemmeno la cosa più preziosa del mondo: è qualcuno. Non solo: l’Eucaristia è noi, perché questo è il mio corpo (Mt 26,26) — sempre a rischio di essere cosificato — deve essere costantemente «equilibrato», illuminato dall’affermazione paolina: Ora voi siete corpo di Cristo (1Cor 12,27). Forse la vera «istituzione» dell’Eucaristia va ricercata (più di quanto non avvenga di solito) nelle parole di Gesù stesso in Mt 18,20: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro. L’Eucaristia non è quel qualcosa — per quanto preziosa e «sacra» possa essere — a cui la riduciamo per convenienza, per debolezza, per decadenza, per interesse: l’Eucaristia è lui, è noi, è lui con noi e noi con lui, è quel tra di noi in mezzo al quale Egli sorge (risuscita), in mezzo al quale Egli si manifesta liberamente come evento pasquale, come evento unico. È l’alimento vivo (Gv 6) e personale, umano-divino, del nostro vivere insieme in lui. È Presenza, è azione, con tutte le conseguenze «sociali» (esplosive e rivoluzionarie) che ne derivano e di cui Mt 25,40 ne dà la formula insuperabile: In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. L’Eucaristia non è la caramella per un godimento individuale (il mio Gesù personale), ma l’inizio sacramentale della nostra difficile costruzione comune in corpo di Cristo.

La reificazione ricorrente ed endemica dell’Eucaristia ha due corollari. Il primo è il consumismo sacramentale che, di certo inconsapevolmente, usa l’Eucaristia non come pane di vita (Gv 6,34), non come pane vivo che postula il viverlo con le sue vertiginose conseguenze esistenziali, ma come oggetto di consumo religioso. Tale mentalità non è estranea al consumismo sacramentale a cui ci siamo abituati — bisogna riconoscerlo — in secoli di cristianesimo sociologico. Non dovremmo coraggiosamente prevedere, per il futuro, messe più distanziate nel tempo, messe che vengano a consacrare non un’azzima insipida di abitudini e di vite parallele, ma il pane caloroso, laborioso e completo di vite decise ad entrare praticamente in comunione profonda, a sostenere lo sforzo del perdono esplicito e reciproco, e soprattutto quella condivisione fraterna della parola di Dio che, servendo come unica sacra mensa, realizza la dignità di un popolo di interpreti?

Il secondo corollario della reificazione dell’Eucaristia è il clericalismo: il sacerdote si impone come il «sacrificatore» designato che «fa», che «confeziona» l’Eucaristia (sacra facere), che ha autorità su di essa — su Dio stesso, pensate! — che l’amministra, la possiede, con la tentazione fin troppo evidente di confiscarne il possesso, con il prestigio personale che attribuisce al suo «potere» (da qui l’accentuazione quasi magica delle parole della consacrazione, così pregiudiziale all’equilibrio della teologia eucaristica). Tutto ciò contribuisce in modo determinante ad oscurare le responsabilità battesimali del Popolo di Dio, non facendolo crescere nell’intelligenza della parola di Dio.

Necessità pertanto di eucaristie più rare nello spazio e nel tempo, ma anche più alte, cioè meglio preparate da un lungo cammino comune (Lc 24,13) verso quel «vertice» che rappresentano; eucaristie che «ristorano» nella sosta (Lc 24,28-30), nel senso pieno del termine, perché non sono più semplici atti rituali privi di un’esistenza generosa. L’Eucaristia, in verità, se la lasciamo fare, se ci lasciamo fare da lei, personalmente, comunitariamente, mondialmente, è dinamite: Cristo è potenza (dynamis, in greco) di Dio e sapienza di Dio (1Cor 1,24). Egli illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere (…) qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore, che egli manifestò in Cristo (Ef 1,18-20).

È bene ricordare che i nostri strumenti rituali non limitano la Presenza, né la condizionano, non obbligano il Vivente a presentarsi in mezzo a noi. La messa non è una macchina rituale garantita per «fabbricare» la Presenza reale! Poiché il Vivente è agile e libero, poiché l’Amato salta sui monti e salta sulle colline (Ct 2,8), saremo attenti a tutti gli eventi «eucaristici» non ritualizzati, non formalizzati, non ufficiali della nostra vita, a tutte le imprevedibili proiezioni della Presenza. L’Eucaristia infatti accade nella nostra vita, e non necessariamente nel momento o nel luogo della messa… Improvvisamente diventano vita le nature morte della nostra vita… Tutto questo materiale eucaristico, infinitamente prezioso, in fondo è da discernere, da tenere presente, da portare in chiesa e da presentare nell’offertorio segreto delle nostre messe domenicali, per non arrivarci con il cuore vuoto. La frazione del pane (il primo e più bel nome dell’Eucaristia, Lc 24,35; At 2,42) dice qualcosa della «fragilità» di Dio e della nostra, in cammino: essa può esplodere all’improvviso nelle mani umane più umili, più rudi, più inaspettate, mentre sfugge dalle mani di coloro che pensano di esserne i proprietari. In verità ci sono frammenti del Vivente ovunque, e noi stessi siamo questi frammenti. Nessuno può mettere le mani su di lui (Gv 7,30), né individuo né istituzione. La manna è pura gratuità: imputridisce non appena viene conservata (Es 16,19-21).

Per questo, facendo tesoro del periodo della reclusione, è giunto il momento di chiarire la comprensione che abbiamo dell’Eucaristia che celebriamo nelle nostre chiese. Ci riuniamo per un confortevole stare insieme, per cerimonie in cui il rituale distrae dallo spirituale, per la ripetizione di insulsaggini e frottole infantili, per l’appello chiassoso e ostentato ad emozioni fugaci, per il mantenimento esausto e triste del consumo religioso? Oppure oseremo aprirci a un ripensamento e a un approfondimento dei nostri enunciati tradizionali, per una interpretazione sapiente della Parola di Dio lontana da ogni riduzione moraleggiante, per un’effettiva apertura al disagio sociale, per una reale permeabilità alle preoccupazioni, ai dubbi e ai dibattiti degli uomini e delle donne del nostro tempo, in una parola per la rivoluzione eucaristica? Se il tempo di confinamento e di sospensione del «culto» pubblico ci ha permesso di misurare la distanza che separa i due estremi di questa alternativa, ovvero del passo che il Signore della Storia si attende che facciamo, allora, per dirla come il buon re Enrico IV, il beneficio che ne abbiamo ottenuto valeva bene qualche messa… in meno.

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