di Don Agrippinno Salerno

Si avverte la necessità di una partecipazione più attiva e chiara dei sacerdoti al processo sinodale. Tutta la dinamica del Sinodo deve essere un’offerta che apra le nostre orecchie all’ascolto, ci aiuti a vivere un vero discernimento. “Sinodalità” fra presbiteri significa entrare in un “noi” sempre più grande, è cercare ciò che ci costruisce insieme come presbiterio.

La fraternità è, per così dire, il distillato dell’esperienza della paternità divina; chi conosce Dio come Padre necessariamente sente crescere la simpatia e la misericordia per gli uomini. La fraternità è una benedizione, come sottolinea Dietrich Bonhoeffer in Vita comune, un testo pubblicato nel 1939 in cui non si danno indicazioni parenetiche: “si deve fare così”, ma si offrono suggerimenti a posteriori: “così noi abbiamo cercato di fare”.

La vita fraterna non è un ideale da realizzare, ma un talento da far fruttificare. Si tratta di un dono che, nei ministri ordinati, si configura come un “peso di grazia” avendo una radice sacramentale, ma che si declina attraverso il patrimonio umano maturato sin dalla nascita ed esplicitato nelle relazioni vere in famiglia.

Il cammino sinodale delle Chiese in Italia vive nell’anno pastorale 2022 – 2023 il secondo anno della fase narrativa, dedicato ancora all’ascolto. L’obiettivo rimane quello di “avviare una nuova esperienza di Chiesa”, così come indicato nel vademecum preparato dalla Cei. Il coinvolgimento avviene attraverso i Cantieri di Betania, attraverso cioè tre filoni di ascolto, la strada e il villaggio, l’ospitalità e la casa, le diaconie e la formazione spirituale.

All’interno di questo significativo paradigma, il Clero del XIII Vicariato ha vissuto giorno 25 Novembre un arricchente momento di ascolto sulla fraternità sacerdotale guidato da Don Salvatore Franco, Sacerdote dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, psicologo e psicoterapeuta.

È stato un dono del Signore aver potuto vivere serenamente una verifica su questo tema tanto caro a tutti noi, in un clima di ascolto e riflessione, animato ed approfondito da dinamiche di gruppo.

Condivido con il Presbiterio diocesano i punti salienti della nostra esperienza vicariale: ecco la traccia di riflessione del relatore che, poi è stata oggetto dei lavori del cantiere sulla relazione fraterna fra noi presbiteri.

1. Occorre percorrere la strada fino in fondo e scoprire, dietro il “collegium episcoporum”, già chiuso e giuridicamente fissato, la fraternità di tutta la Chiesa come fondamento che sostiene tutto. La “collegialità” può sviluppare la sua piena fecondità pastorale solo se appare riferita alla realtà fondamentale di coloro che, per opera del “Primogenito del Padre”, son diventati tra loro fratelli.

Il sacerdote è un mistero a sè stesso e agli altri, un mistero rischioso, inquietante, direi, perché è trasparenza di Dio e il rischio più grande lo vive proprio Lui che si fida di questo suo servo guardandolo nel profondo. Vogliamo lodare il Signore perché ci ha scelti per “stare”, lì dove “stare” indica progettualità di vita che si rispecchia in Lui e che continua la sua fedeltà e amore in noi; uno stare che indica permanente esperienza d’amore: “Pietro mi ami tu?” (Gv 21,15).

«I presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono tutti uniti tra di loro da intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono assegnati sotto il proprio Vescovo» (Presbyterorum ordinis, n. 8).

L’intima fraternità sacramentale viene manifestata anche dai riti liturgici

dell’ordinazione, quando tutti i presbiteri presenti impongono le mani sugli ordinandi e insieme concelebrano «in unione di affetti» (PO 8).

E’ a partire da questi elementi che ha inizio il ricupero del dato teologico del presbiterio: essere disponibili al vescovo, come al «padre» del nostro sacerdozio, al «principio visibile» e al «fondamento» dell’unità della nostra Chiesa. Essere disponibili ai confratelli: forse ci torna più facile esserlo nei confronti della gente che nei confronti dei nostri confratelli. E’ una disponibilità che nasce dall’essere inseriti nell’unico presbiterio diocesano. Dio affida a ciascuno di noi i nostri confratelli! La fraternità nasce dal sacramento dell’Ordine ed è posta nel nostro cuore come dono e come responsabilità: «Tu sei il custode di tuo fratello!». Tocca a noi sentirci famiglia prebiterale e vivere fra noi la logica della vita di famiglia, superando la tentazione dell’egoismo e dell’individualismo, per aprirci alla reciproca collaborazione, mai dimenticando che l’amicizia tra sacerdoti è una importante testimonianza evangelica per la nostra gente: «siano una cosa sola, perché il mondo creda…» (Gv 17,21).

2. Non fatevi chiamare “rabbi”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide” perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo ( Mt 23,3-8). Se volessimo interpretare in maniera letterale queste parole, non dovremmo dare a nessuno questo titolo, neppure a colui che ci ha generato nella carne. Questo Vangelo offre invece una provocazione e una sfida. Se Dio è l’unico Padre, può avere l’ambizione di chiamarsi padre solo colui che nella sua vita riflette la paternità di Dio e testimonia che ogni cosa trova in Dio la sua origine (Ef 3, 14-15). Nonostante la nostra vita sia sempre difettosa, i gesti e le parole non sempre lasciano intravedere qualcosa della tenerezza di Dio ma quanto più abbiamo coscienza dei nostri limiti, tanto più annunciamo che solo Dio può dare una risposta adeguata ai desideri del nostro cuore. Non è una scusa per giustificare le nostre mancanze ma l’umile testimonianza di chi riconosce di essere solo uno strumento imperfetto.

A noi Presbiteri è chiesto di essere Chiesa, costruendo un anello della tradizione: completando magari qualche cosa che manca all’anello precedente, e aprendo spazi per coloro che ci seguiranno. Perché la Chiesa viene prima di noi, passa attraverso di noi e procederà dopo di noi.

Sono stati evidenziati due preoccupazioni, quasi due stati patologici che possono affliggere il presbitero: la «sindrome di protagonismo» e la «sindrome di onnipotenza». Bisogna guarire e prevenire queste criticità per divenire veri «padri, maestri e guide», ed esserlo «come fratelli».

Possiamo dirci padri, maestri e guide, sapendo che l’unica guida è il Signore, che ci rivela e comunica l’amore dell’unico Padre, nell’unico maestro che è lo Spirito Santo.

La fraternità sacerdotale ci abilita “all’essere del presbiterio”, nella  consapevolezza di esserlo alla pari con tutti i confratelli e nella gioia di sentirci affidati gli uni agli altri per tenere unito il Corpo mistico di Cristo.

3. L’unione tra i presbiteri e i vescovi è particolarmente necessaria ai nostri giorni, dato che oggi, per diversi motivi, le iniziative apostoliche debbono non solo rivestire forme molteplici, ma anche trascendere i limiti di una parrocchia o di una diocesi. Nessun presbitero è quindi in condizione di realizzare a fondo la propria missione se agisce da solo e per proprio conto, senza unire le proprie forze a quelle degli altri presbiteri, sotto la guida di coloro che governano la Chiesa (PO,7)

Il ministero è opera comunitaria, non un “a solo” virtuosistico di singoli preti. Il prete è relazionato e innestato a Cristo e alla Chiesa e nella Chiesa al Vescovo e a tutti coloro che appartengono all’ordine dei presbiteri in una fraternità sacramentale che precede e supera quella del sangue e quella della amicizia. Siamo l’uno nell’altro, l’uno con l’altro, l’uno per l’altro. Una fraternità indissolubile che sola permette, se vissuta, di vivere in stato di missione permanente. Dalla “communio” nasce “la missio”: essere testimoni di Cristo Pastore e suoi cooperatori per la gloria di Dio ed il bene integrale dell’uomo.

Pertanto, ciascuno è unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero e di fraternità (PO 8).

Don Franco ci ha introdotti ad una riflessione profonda sul nostro “essere preti con gli altri preti”: ecco il grande valore della fraternità sacerdotale!

Dopo il tempo della riflessione di “ascolto”, il relatore ha menzionato ed approfondito alcune criticità che minacciano la fraternità presbiterale oggi e che sono da ricercare nel vissuto esperienziale di ciascuno di noi, vissuto all’interno delle nostre famiglie biologiche di appartenenza.

L’anamnesi delle relazioni umane con le nostre famiglie di appartenenza (con genitori, fratelli e sorelle) può determinare un esito positivo o negativo per la grande famiglia del Presbiterio. La Famiglia di provenienza è depositaria di doni specifici ed offre un contributo educativo in ordine alla nostra maturazione affettiva ed alla comprensione del nostro ministero nella comunità cristiana.

Iniziano i laboratori di ascolto con un metodo al quanto nuovo per noi.

Il relatore ci ha chiesto di dividerci a due a due e dialogare sulla nostra esperienza personale di fraternità a partire da quella vissuta nelle nostre famiglie seguendo gli spunti indicateci:

  1. Hai fratelli o sorelle?
  2. Se sì, in che ordine di nascita ti sei trovato e cosa ha comportato per te questo ordine sia nelle relazioni con i genitori che con gli altri fratelli. Se no, considera la relazione con altri cugini o con amici.
  3. Ricordi particolari gioie nelle relazioni con i tuoi fratelli?
  4. Ricordi particolari sofferenze in tale relazione?
  5. Ritrovi nella tua esperienza attuale di fraternità con gli altri sacerdoti qualcosa che ti sembra possa essere collegata con la tua esperienza in famiglia?

Abbiamo potuto rileggere la nostra storia personale per scoprire il proprio bagaglio relazionale, interpellare la propria capacità di amare, promuovere la condivisione ed il confronto. Significativo il fatto che ci siamo “fidati” gli uni degli altri. (nel ministero della riconciliazione noi presbiteri chiediamo ai nostri fedeli di fidarsi di noi. Maggiore deve essere allora l’atteggiamento di fiducia e affidamento fra noi presbiteri!!). Ognuno ha potuto serenamente esprimere di portare con sé una storia, un modo tutto suo di dar senso all’esperienza, di vivere il rapporto con gli altri a partire dal proprio contesto familiare.

Nella famiglia di origine, attraverso le generazioni si tramandano più o meno consapevolmente miti, ruoli, mandati che tendiamo a riproporre anche in altri contesti di vita, spesso riportandoli nel presbiterio in modo positivo o negativo.

Dopo il primo lavoro di gruppo siamo tornati in assemblea plenaria per verificare con l’aiuto del relatore le criticità che si antepongono alla fraternità presbiterale locale e diocesana.

Siamo stati introdotti e guidati alla meditazione di Fil 2,3: “Non fate nulla per rivalità e vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sè stesso”.  S. Paolo ci invita a smussare ogni angolo del cuore e ogni punta della mente perché possiamo diventare duttili e morbidi nell’amore degli uni verso gli altri. Un amore pieno che esige lo “svuotamento” dell’amor proprio e dell’orgoglio: si tratta di vederci da una parte, cercando di superare l’altra parte. Si tratta dell’idea di superare la tentazione di considerarsi più importanti degli altri. Dio ci comanda di non fare nulla per spirito di rivalità ma di nutrire gli stessi sentimenti di Cristo. Non dovremmo mai avere come motivazione del nostro ministero quella di vincere sugli altri.

Inizia il secondo gruppo di lavoro come esercizio psico-terapeutico di misericordia con domande stimolanti per la riflessione personale:

  1. Quali sono i principali conflitti che vivo nella mia comunità e con gli altri confratelli con cui collaboro?
  2. In che cosa sono maggiormente urtato nella mia suscettibilità dall’altro e particolarmente dal suo comportamento, dalle sue fasi, dal suo “successo” con gli altri, con i complimenti che riceve, con le preferenze che vengono rivolte a lui da altri o da quella che giudichiamo la sua “sete” di centralità. Quale aspetto della mia persona ne risulta maggiormente ferito?

Il relatore ci ha invitati a dividerci in gruppi di due e di provare a disegnare un simbolo, una figura o a scrivere una frase che descrivesse questa parte di noi più sofferente o incompresa.

Ognuno, a turno, doveva mettere sul proprio petto il proprio disegno o frase mentre l’altro lo guardava in silenzio e attenzione, come l’avrebbe guardato il nostro “essere padri”. Poi si doveva esprimere ciò che emergeva nel cuore riguardo a ciò che aveva colto dell’altro e del bene che è in lui. L’altro, a sua volta, esprimeva la propria sensazione di come si era sentito guardato ed ascoltato e se aveva colto qualcosa di utile per sè stesso.

Ognuno lasciava l’altro dicendo: “Và, la tua fede ti ha salvato”

Abbiamo concluso la mattinata nella gioia di averci “ascoltati”, ma soprattutto di aver ascoltato la voce del Signore attraverso i confratelli, senza aver indurito il nostro cuore, ma soprattutto è stato bello lo stare insieme, il poterci ritrovare, vivere questa mattinata come un’occasione di fraternità, dove ci siamo raccontati a vicenda superando i pregiudizi e la poca fiducia per l’altro. Abbiamo avuto la possibilità di fare il punto sul cammino sacerdotale, per conoscersi meglio al di là dei tanti anni di ordinazione.

La sinodalità vera che favorisce incontro, conoscenza, condivisione, comunione, amicizia, diventi sempre più un punto fermo della nostra vita di sacerdoti e di persone che amano Cristo e la sua Chiesa

Il sacerdozio è un dono di Dio, come la vocazione ad esso connesso; va vissuto nella fedeltà a Cristo e nella costanza di essere buoni pastori e samaritani non solo per le anime a noi affidate ma soprattutto per i confratelli del Presbiterio che incontriamo nel nostro percorso ministeriale: dobbiamo gioire del dono della nostra vocazione sacerdotale e la gente, soprattutto i giovani, possano in questo modo vedere e fare esperienza che Cristo è tutto per noi.

Papa Francesco ci ricorda che: “un buon prete, dunque, è prima di tutto un uomo con la sua propria umanità, che conosce la propria storia, con le sue ricchezze e le sue ferite, e che ha imparato a fare pace con essa, raggiungendo la serenità di fondo, propria di un discepolo del Signore». Un prete deve essere «un uomo pacificato», capace di «diffondere serenità intorno a sé, anche nei momenti faticosi, trasmettendo la bellezza del rapporto col Signore”. (udienza alla Congregazione per il Clero del 20/11/2015).

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