Gorgia da Lentini (483-373 a.C) giungeva all’apice della sua filosofia scrivendo: “Nulla è”. Senza scomodare troppo il pensiero gorgiano, questa impronta nichilistica sembra oggi contraddistinguere la politica nostrana, e ancor più, in questa tornata elettorale per il Parlamento europeo. Infatti, qualcuno è riuscito a capire quali sono i contenuti programmatici dei diversi partiti schierati in campo? Abbiamo visto organizzare dibattiti per un confronto tra i programmi? Forse bisognerebbe andarli a cercare su internet, perché ciò che viene divulgato, nelle varie interviste o negli interventi in certe trasmissioni televisive, ha il sapore di frasi fatte ad effetto. Infatti, chi non vorrebbe sostenere le famiglie, le imprese, le fasce più deboli, o i giovani, chi non vorrebbe diminuire le tasse e così di seguito…Ma la domanda è: con quali mezzi, con quali metodi, con quali decisioni concrete, con quali risorse? E più ancora: a partire da quale visione generale della politica? Populista o davvero popolare? Nessuno ce lo spiega. Sentiamo le stesse cose, come cibi precotti. Sembra, per dirla parafrasandoHegel, che le affermazioni programmatiche (o para-programmatiche)  degli schieramenti politici siano simili a una notte nera in cui tutte le vacche sono nere.

Il vuoto politico emerge anche dal fatto che i candidati

anziché argomentare per dimostrare la validità delle loro proposte, molto spesso, preferiscono denigrare le opinioni dei loro avversari, con l’insulto, che può toccare il versante morale fino a giungere alla sanità mentale: lei è ipocrita; oppure: chi dice queste cose deve essere curato da qualche psichiatra! La parola, quindi, viene usata per offendere oppure adoperata in modo sofistico per dare una parvenza di bene ai propri programmi, ingannando la gente. Ma in tal caso, sarebbe bene ricordare a tutti costoro l’insegnamento che troviamo nella “Politica” di Aristotele: la naturale inclinazione dell’uomo a vivere in società è fondata sul fatto che il soggetto umano è l’unico, tra tutti gli esseri animali, ad aver ricevuto dalla natura la “parola” (in greco “logos”, che equivale anche a “ragione”), la quale implica pure la capacità morale di distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto e, quindi, ciò che deve essere fatto e ciò che non deve essere fatto; il che vuol dire, in definitiva, avere la percezione dei valori, confacenti alla razionalità umana.  Ed è appunto attraverso la parola, che rende gli uomini  capaci di comunicazione e di relazione, che si potrà raggiungere un’ordinata e armonica convivenza nella polis, basata sulla giustizia e sull’amicizia civile. Ciò implica un uso della dialettica nel dibattito politico, in cui il ragionamento e il confronto serio sui contenuti conducono a delle conclusioni per determinare in questa o quest’altra circostanza storica il bene comune dei cittadini. E ovviamente, uno stile simile presuppone il rispetto per l’avversario politico e per le sue idee. Infatti, non bisogna dimenticare che “uno Stato non consiste in una massa di uomini, bensì di uomini specificamente diversi” (così ancora Aristotele nella “Politica”).

Accettare la diversità tra i cittadini,

allora, significa mettere in conto la diversità delle opinioni politiche, anche le più disparate, che attraverso una dialettica, che con saggezza sa usare il “logos”, la “parola-ragione”, può condurre a delle importanti e valide soluzioni creative per affrontare i problemi del Paese. Anziché, pertanto, demonizzare chi non la pensa come noi, invece bisognerà educarsi a “una convivenza nella quale siamo capaci di fermentarci a vicenda”, in vista del bene comune (come esortava il Card. Martini). E da questo punto di vista, purtroppo, lo spettacolo che abbiamo visto svolgersi qualche settimana fa in parlamento, durante il dibattito sul Ddl dell’Autonomia differenziata, con la discussione accesa a tal punto da spingere alcuni deputati a venire alle mani, non era tale da far pensare a quel tipo di dialettica, che agisce da “fermento”, per la ricerca del vero bene del Paese. Vengono in mente le parole di Platone: “[…] chi non ha il senso del rispetto e il senso della giustizia […] è come una peste per lo Stato”. Dai telegiornali è stata offerta ai cittadini l’immagine deplorevole di un’aula parlamentare litigiosa e boriosa, pettegola e violenta. Pertanto, quelle scene sembravano dare ragione a Cicerone, che riferiva di alcuni filosofi, secondo i quali, “alla politica partecipano per lo più uomini che non meritano nulla, con cui è degradante confrontarsi, mentre contrastarli è penoso e pericoloso […]”. La conclusione per quei filosofi era quella di astenersi dalla vita politica perché: “non sarebbe cosa degna di uomini liberi affrontare avversari corrotti e brutali, subire l’aggressione dei loro insulti o doversi aspettare offese intollerabili per l’uomo saggio […]” (Lo Stato). Come si può constatare, purtroppo, anche  nell’antichità non mancavano politici che non erano all’altezza del loro compito e con i loro comportamenti scorretti inducevano gli altri cittadini a stare lontani dalla vita politica. E la conseguenza negativa e pericolosa, oggi, non è solo l’astensionismo elettorale, ma qualcosa di molto più grave che può apparire sull’orizzonte politico di un Paese: Quando la massa dei cittadini vuole occuparsi soltanto di affari privati, i più piccoli partiti non devono disperare di poter diventare padroni degli affari pubblici. Non è raro vedere allora sulla vasta scena del mondo, come avviene nei nostri teatri, una moltitudine rappresentata solo da alcuni uomini. Costoro soltanto parlano in nome di una folla assente o distratta; soltanto costoro agiscono in mezzo all’immobilità generale, dispongono a loro capriccio di ogni cosa, cambiano le leggi e tiranneggiano a loro piacere i costumi, e sorprende vedere quanto sia piccolo il numero di mani deboli e indegne nelle quali può cadere un grande popolo”( così all’inizio dell’800 scriveva A. De Tocqueville in La democrazia in America).

L’esperienza di don Sturzo dovrebbe essere un modello per i tanti politicanti odierni:

“Ho provato che la tolleranza, anche nelle lotte più acute, mantiene i contendenti in una sfera di equilibrio,  serenità e giustizia, che rende più umana la lotta e più seri i contrasti, frena l’eccesso delle passioni; fa meglio rilevare i propri errori”. Perciò, concludeva il nostro, “i partiti dovrebbero sentire come punto d’onore quello della reciproca lealtà e del reciproco rispetto”. E addirittura, arrivava a proporre una sorta di codice d’onore: “I partiti dovrebbero introdurre una specie di nuova cavalleria basata sul senso di onore politico degno del nuovo ordine: il democratico” .

Alla politica della palude e delle meschine polemiche,

che ci viene somministrata ogni giorno, vorremmo che si sostituisse la nobile politica animata da una forte tensione ideale, degna di uno Stato democratico, rispondente a quella bella e profonda definizione di S. Tommaso d’Aquino, il quale, nella sua “Ethica”, scrive: “la politica è principalissima ed architettonica rispetto a tutte le altre scienze pratiche e morali”, in quanto abbraccia e coordina i loro fini, in vista del bene umano. E l’Aquinate ce ne spiega il motivo dicendo che “essa convoglia verso il fine ultimo dell’uomo tutte le attività; in essa soltanto si integra il bene individuale”, considerato come “ultimo e perfetto bene tra le cose umane”.

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