foto di Alessandra Manfrè

C’è un risveglio di interesse e iniziative nel mondo giovanile. Ma l’opinione pubblica continua ancora a usare vecchi paradigmi e a ripetere il termine «addormentati». Un diario dall’interno dell’Università

Alla vigilia del 15 maggio, vedendo ciò che stava succedendo – e continua a succedere – in altri atenei italiani mi aspettavo che anche qui a Catania succedesse di tutto. 

E invece “niente”. O meglio, niente di ciò che mi sarei aspettato, che “facesse notizia”. 

Eppure la notizia c’è, ed è questa: a differenza di altri luoghi, l’accampamento pro Palestina nel cortile dei Benedettini è stato pacifico. E per di più ci sono stati momenti di assemblea, di approfondimento sul tema, di condivisione e di svago (tante sessioni musicali improvvisate). 

Il cortile del Monastero non è stato vandalizzato in nessun modo: anzi, capitava spesso di vedere qualcuno degli accampati lasciare lo spazio occupato meglio di come lo aveva trovato (deve essere stato qualche ex scout), trattare davvero l’Università come casa propria.

E tutto questo è ammirevole, lodevole. Alla faccia di chi li chiama “pigri”.

Gli studenti: «Cessare i rapporti con Israele e Leonardo Spa»
Il rettore Priolo: «Non è facile»

È vero: un’assemblea al giorno, tanti approfondimenti. Ma tutti senza “contraddittorio”. Intendiamoci: mercoledì 15, con l’inizio della acampada studentesca, una delegazione di una ventina di persone partiva dai Benedettini per raggiungere piazza Università e portare al rettore le ragioni della protesta: cessare ogni tipo di accordo con Israele e, specialmente, con Leonardo Spa.
Il destinatario, insieme alla prorettrice Longo, ha ascoltato molto attentamente la “comunità studentesca”. Ha espresso le sue considerazioni sul doppio utilizzo della tecnologia, ha spiegato che «Non è facile interrompere dei rapporti di ricerca con altre università», ma si è sommariamente dimostrato in accordo con le istanze principali.

I giorni passano, le tende permangono anche nel weekend.

Per la giornata di martedì 21 maggio i collettivi annunciano, tramite le pagine social, un’assemblea con il rettore ai Benedettini. Alle 9 del mattino.
A detta di chi era presente, non è stato un momento esattamente “pacifico”. A partire dalla richiesta di Priolo di «fare velocemente, in mezz’ora», l’obiezione di molti studenti è stata: «Non si può affrontare una questione tanto delicata in così poco tempo. Ci chiediamo perché non abbiate ancora preso una posizione netta». Così sono scesi nuovamente in Rettorato, stavolta entrando e appendendo gli striscioni – e l’enorme bandiera palestinese che campeggiava sopra le tende – alle balaustre del chiostro (anticipando il deputato Apuzzo a Montecitorio).

Dialogare è il primo passo per generare la pace

A lezione di Giornalismo il dibattito sul tema, già dalle prime proteste USA, è stato sempre molto interessante, acceso (positivamente) e costruttivo. Anche in vista delle prossime elezioni europee. «Secondo me fanno bene, alzare la voce è l’unico modo che abbiamo per esprimere il nostro dissenso», oppure «Non si capisce bene per cosa stiamo alzando la voce», o ancora «Se l’obiettivo era creare disagi, non ci stanno riuscendo». Ormai, affacciandosi dal balcone dell’aula 106, l’accampamento non generava più stupore.

Già, non generava: perché da giovedì 23 scorso, affacciandosi sullo stesso balcone, le tende non le abbiamo viste più. «Cosa è successo? – ci chiede il prof. – La protesta è finita?»

Poco prima della lezione avevo incontrato Silvio, un mio collega che ha partecipato alla acampada. Gli chiedo come mai avessero sgomberato e mi risponde: «Abbiamo avuto la sensazione che sarebbe potuto succedere qualcosa di brutto, ma la protesta continuerà ogni giorno negli altri dipartimenti, fino a quando non saranno presi provvedimenti concreti». Una delegazione vorrebbe partecipare anche alla prossima seduta del Senato accademico, martedì 28.
Anche con lui cerco di instaurare un dialogo: ne abbiamo affrontati tanti simili in tre anni, e ci siamo trovati in disaccordo su tantissime cose. 
Ma la cosa bella è parlarne, confrontarsi, affrontare questi temi; magari trovare dei punti di incontro.

Penso che il problema principale di noi giovani, oggi, non sia tanto “prendere a cuore quello che sta succedendo nel mondo”. Perché lo facciamo: chi con le tende, chi con altri gesti, chi con i dibattiti, eccetera.
Ma il dialogo con chi dà un giudizio diverso dal tuo sullo stesso tema è il primo passo per generare davvero la pace. 
Per parafrasare nuovamente monsignor Pizzaballa: «La pace si genera partendo dal basso, dai nostri rapporti quotidiani».

Adulti, guardate anche voi a ciò che sta succedendo: non venite a dirci che siamo addormentati. Un uomo implicato davvero con il reale non dorme mai.

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