Ritornando ancora sulla “beata Peppina”, in una sorta di trilogia commemorativa – precedentemente abbiamo approfondito la figura e il ruolo della mamma e poi la centralità dell’Eucarestia nella vita di Giuseppina Faro – in occasione della solennità del patrocinio del nostro Santo Padre Benedetto che ricorre l’11 luglio, vogliamo soffermarci sulla spiritualità benedettina di questa nostra “consorella” del tutto speciale.
L’ultima fase della vita di Giuseppina Faro è contrassegnata, infatti, dalla sua permanenza per 18 mesi nel monastero di San Giuliano a Catania quale naturale sbocco della sua intensa vita spirituale già orientata da una sorta di consacrazione in casa e caratterizzata da una generosa carità evangelica che dall’Eucaristia traeva la sua forza e la sua ragione e avendo Maria come modello di totale e attenta disponibilità. Il capitolo 4° della santa Regola che elenca gli strumenti delle buone opere, ha al suo apice il duplice comandamento dell’amore: «Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; poi il prossimo come se stesso».
Giuseppina Faro da tempo desiderava di poter realizzare la sua vocazione monastica e appoggiata dai pii genitori che glielo permisero dopo una iniziale resistenza e mettendo a condizione il raggiungimento della maggiore età (allora a 21 anni), lasciati gli agi e gli affetti di casa, da Pedara si trasferì a Catania: era il 1870. Entrata in monastero dovette però alimentare la speranza della consacrazione definitiva confidando totalmente nel Signore cui nulla è impossibile. Infatti, a seguito della legge 7 luglio 1866 che affermava non essere «più riconosciuti dallo Stato gli Ordini, le Corporazioni e le Congregazioni religiose regolari e secolari, ed i Conservatori e Ritiri, i quali importino vita comune e abbiano carattere ecclesiastico», non potevano accettarsi aspiranti alla professione religiosa in quanto le varie comunità erano votate all’estinzione. Nei monasteri femminili si trovò l’espediente di accogliere le novizie come fossero educande. E Peppina divenne educanda di nome, postulante di fatto, benedettina per sempre nel cuore.
Il ritratto posto sopra la tomba di Giuseppina nella chiesa dell’Annunziata a Pedara e riprodotto nelle tante immaginette-ricordo, risale molto probabilmente a quel periodo, dal momento che l’abito con cui è rivestita somiglia molto a quello indossato anche dalle educande del nostro monastero e delle quali conserviamo vecchie fotografie. Di lei vengono rilevate soprattutto la perfetta obbedienza, l’umiltà, la radiosa serenità e una intensa propensione alla preghiera. Così scriveva il biografo padre Felice Maria Caruso: «L’abbadessa Suor Maria Concezione Costantino e Suor Maria Battistina Paternò Scammacca mi assicurarono che le più antiche moniali non videro mai nel loro monastero un’anima elevata a sì alta perfezione ed in sì stretta unione con Dio». Pertanto, secondo la lettura teologica di mons. Salvatore Consoli, «la preghiera, la contemplazione e l’unione con Dio sono da ritenersi i motivi profondi che le fecero tanto desiderare il monastero», oltre la possibilità di poter stare più vicina al SS. Sacramento come sostengono pure i primi biografi.
Delle tante virtù di Giuseppina Faro, viene evidenziato anche il suo abituale rapporto di pace con tutti. Questo ci fa cogliere un particolare accostamento con san Benedetto, oltre i tanti che non è possibile sviluppare in poche righe. La Lettera apostolica con la quale il 24 ottobre 1964 san Paolo VI proclamava il Santo di Norcia patrono d’Europa, inizia proprio con un chiaro appellativo che dà il titolo alla lettera stessa: «Pacis nuntius». Partendo dal cuore di Benedetto che ha vissuto l’ideale della serena convivenza, dell’armonia delle diversità, dell’ascolto accogliente e della fraternità piena, la pace è divenuta uno degli ideali fondamentali del monachesimo. Pax è, infatti, il secolare motto benedettino che si trova inciso nell’architettura stessa dei monasteri, ricamato o dipinto negli arredi sacri, ma soprattutto inciso nella quotidianità della vita monastica. Come benedettina, e prima ancora come cristiana, anche Giuseppina Faro, proprio perché ha sempre cercato e alimentato la comunione con Dio e con il prossimo, ci parla di pace, ci invita alla pace, ci sostiene nella missione di operatori di pace.
A causa della salute cagionevole dovette lasciare a malincuore il monastero e far ritorno alla casa paterna, continuando a vivere, come già anche precedentemente, quasi fosse in un sacro chiostro. Era il 14 aprile del 1871. Un mese dopo, il 24 maggio, morì santamente tra atroci dolori mentre tanti prodigi straordinari confermarono la fama della sua santità.
Il breve assaggio della vita monastica è stato per Giuseppina conferma e sigillo, preparazione al traguardo ultimo che la vide pronta nell’adesione alla volontà di Dio al cui amore nulla aveva mai anteposto. Un amore che ancora oggi ci raggiunge nella memoria di questa sposa fedele e appassionata, vero “faro” di luce e di carità.