
In un tempo che spinge alla velocità, all’apparenza, al vantaggio personale, c’è chi sceglie di fermarsi e andare in direzione opposta. Di mettersi in gioco, davvero. Di fare qualcosa che lasci il segno. Sono 18 i giovani che stanno per partire con il Cope – Cooperazione Paesi Emergenti – per un anno di servizio civile. Non solo per aiutare, ma per lasciarsi trasformare. Lontano dai riflettori, dal rumore e dalle comodità. Più vicini all’essenziale. «Sentivo il bisogno di fare qualcosa che contasse», dice Lucrezia, 23 anni, neolaureata in Infermieristica, in partenza per la Tanzania. “Voglio mettere le mie competenze al servizio del diritto alla salute. È un diritto fondamentale, e non è scontato in molte parti del mondo”. Accanto a lei partirà anche Cecilia, 26 anni, laureata in Medicina, che ha scelto di vivere la sua professione da un’altra prospettiva. «Non è una pausa. È un’occasione per allargare lo sguardo. Ho scelto l’Africa perché mi aspetto un contatto autentico con un mondo dove i valori sono diversi. Spero di ritrovare la bussola di ciò che conta davvero».
Oltre l’individualismo: fare spazio all’altro
Non c’è solo l’ambito sanitario. Molti dei progetti Cope toccano dimensioni sociali e culturali. Simona, 28 anni, partirà per Tunisi per lavorare sull’inclusione lavorativa di persone fragili. «Ho studiato arabo, ma non ho mai vissuto in un Paese arabo. Voglio toccare con mano ciò che ho sempre studiato. Amo i contesti multiculturali: sono ricchi di domande, non di risposte preconfezionate». Come lei, anche Elena, 25 anni, si prepara a partire per Marrakech. Il suo progetto è dedicato all’istruzione di donne e bambini. “Sono laureata in Arabo, conosco la lingua e la cultura, ma desidero avere un contatto diretto, senza filtri. Quando ho letto il progetto, ho sentito che mi ci ritrovavo. Ci sarà anche spazio per un’attività di tutorato linguistico, che è ciò che ho fatto quest’anno in università. Mi ha dato tante soddisfazioni. Ho sentito che lì, davvero, posso dare qualcosa di concreto”. Ma la sua motivazione non è solo legata agli studi. È anche esistenziale. “Sento il bisogno di fare qualcosa per il bene comune. Viviamo in una società che va verso un individualismo sempre più spinto. Io ho voglia di fare il contrario. Di sporcarmi le mani, di lasciarmi anche sorprendere, sconvolgere. Non ho aspettative precise. Ma vorrei tornare e dire: ho fatto davvero qualcosa di positivo”.
Costruire legami, ritrovare la propria direzione
Prima della partenza, i volontari hanno vissuto un momento di ascolto e riflessione insieme all’Arcivescovo Renna, nel Seminario arcivescovile. Un tempo sospeso, in cui le parole sono diventate luce. “Il mondo ha bisogno di ponti, non di muri” – ha detto il Vescovo – affidando ai ragazzi una benedizione speciale. Perché partire non è solo spostarsi. È scegliere una postura interiore. Tutti loro hanno seguito un intenso percorso formativo. E ora sono pronti. Pronti a partire, a servire, a imparare. Ma anche a lasciarsi mettere in discussione. In un’epoca che anestetizza il sentire, il volontariato è un gesto di disobbedienza luminosa. È lo spazio in cui riscoprire il valore delle piccole cose.