Sono 128 i giorni che vanno dal 31 marzo al 6 agosto: sono i giorni che, passo dopo passo, hanno segnato il tragico cambiamento di due famiglie, quelle di Sara Campanella e di Stefano Argentino.

In quel pomeriggio di fine marzo 2025 Sara, 22 anni, stava uscendo dal Policlinico di Messina, dove frequentava le lezioni universitarie. Alla fermata del bus le si avvicina Stefano, un suo collega poco più grande di lei, morbosamente interessato alla ragazza ormai da diverso tempo: la aggredisce, le sferra un fendente alla gola che la uccide e poi fugge. Qualche giorno dopo, il ragazzo confessa, e viene posto in detenzione nel carcere di Messina. Il processo sarebbe iniziato il prossimo 10 settembre.

La tragedia ed il dramma umano

Ad assistere al tragico evento di quel pomeriggio, appena uscita anche lei dal Policlinico, c’è Fortunata, studentessa di Medicina: «Non dovevo essere lì, non esco mai da lezione a quell’ora», ci ha raccontato in un dialogo avvenuto poco tempo dopo quei fatti. Fortunata si precipita verso Sara, assieme ad altri colleghi e amici, per tentare di soccorrerla. «Non racconterò i particolari, anche perché – spiega  – li ho rimossi. Il buon Dio ci ha concesso di avere un cervello capace di rimuovere in fretta i traumi».

Sono fatti che non possono essere ridotti, secondo lei, a mera cronaca nera o a etichette come quella del “femminicidio”. È stato l’omicidio di una ragazza che aveva un nome e un cognome, i suoi sogni e le sue aspirazioni, come tutti a quell’età.

Fortunata e il suo gruppo di amici universitari di CL sono rimasti molto segnati da queste vicende.

E per tutti questi giorni fino allo scorso 6 agosto, quando Stefano, nella sua cella, ha deciso di porre fine alla sua vita dopo aver minacciato più volte di volerlo fare, le domande di questi ragazzi sono state: « Come si sarà sentita davvero Sara in quei momenti? Che dolore interiore deve aver provato Stefano per fare quello che ha fatto?Come immaginare il dolore che stanno provando quelle famiglie? Chi si prenderà cura di Stefano?» Domande che non possono venire appena dal cuore umano, ma che sono dettate dalla grazia di aver sperimentato l’incontro con un Tu nella propria vita, destinato a diventarne la Compagnia eterna.

A quell’ultima domanda, forse, adesso si può rispondere elencando chi non si è preso cura di Stefano ancor prima del 31 marzo. E senza esclusioni, né sensi di colpa, si tratta di noi.

La risposta della società e il conforto della fede

Non è una colpa attribuibile appena ai secondini e al personale carcerario, reo di impedire sempre meno avvenimenti di questo tipo dietro le mura detentive italiane (in sette sono indagati per la morte del ragazzo), non è neppure un problema esclusivo della famiglia, che «non l’ha educato al rispetto dell’altro», come si leggeva nei commenti sotto alcuni post relativi alla notizia dell’omicidio.

Quelle stesse sezioni di commenti che tradiscono totalmente il rispetto nei confronti della morte di una persona: prima della ragazza, spostando ben presto il focus sull’assassino augurandogli la stessa fine; e poi ancora su di lui, quasi ringraziandolo per essersi tolto di mezzo.

Mentre tramite questa altrettanto tragica notizia si cerca di risollevare la questione sullo stato delle carceri italiane, noi uomini quasi gioiamo della morte di un ragazzo, certamente colpevole dell’ingiustificabile male commesso: sembra ormai essere il sentimento più naturale da provare, per noi (soprattutto i giovani) così incapaci di accettare dei “no” nelle nostre giornate e di perdonare per i piccoli e umani screzi quotidiani. Per noi che con le nostre sole forze e soltanto con il nostro cuore piccolo e meschino non riusciremmo ad andare al fondo del dramma umano di quei ragazzi e delle loro famiglie.

Abbiamo bisogno di affidarci a qualcun Altro con la preghiera, di affidare l’anima di Sara e anche quella di Stefano a Cristo, l’Unico che potrà davvero prendersene cura, l’unica Speranza eterna.

Lui perdonò anche il “buon ladrone” crocifisso accanto, nonostante tutto il male che in vita quell’uomo aveva commesso. «Ricordati di me quando sarai nel Tuo regno». Fu il primo a cui Gesù rispose: «Oggi sarai con me nel Paradiso».

L’atteggiamento del cristiano è quello che anche Fortunata e i suoi amici ci mostrano: pregare, affinché anche Stefano possa riconoscere e partecipare a quell’abbraccio senza fine.

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