
Ludwig Wittgenstein, noto filosofo del linguaggio della prima metà del sec. XX, scriveva che le parole sono come gli utensili di un artigiano e, quindi, devono essere usate in modo adatto per non fare danno agli altri e a sé stessi. E, inoltre, aggiungeva: su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere. Cioè, occorre essere prudenti e non si deve mai parlare a vanvera. Le parole, pertanto, devono essere maneggiate con cura perché possono ferire la sensibilità degli altri, fino a creare incidenti diplomatici, come è accaduto in queste settimane tra Italia e Francia, in seguito alle ripetute e variegate affermazioni offensive o ridicolizzanti rivolte dal ministro Salvini contro il Presidente francese Macron.
L’uso spregiudicato del linguaggio e le guerre
In casi estremi, l’uso spregiudicato e provocatorio del linguaggio può arrivare a generare guerre. Quanto adesso accennato, sembra che sia stato dimenticato da molti potenti del nostro tempo, politici e plutocrati, che con le loro affermazioni, molto spesso, alimentano divisione e odio, che spaziano dall’ambito economico (come avviene per i dazi di Trump) fino ai bombardamenti nella Striscia di Gaza e in Ucraina, come pure in tanti altri Paesi del mondo. E il linguaggio, ormai, non sembra più capace di comporre i conflitti, con la mediazione paziente dei negoziati e il dialogo vero e profondo, che sappia trovare le parole giuste e persuasive per stabilire una convivenza di pace.
Al recente vertice di Shanghai, Putin ha accusato l’Occidente di aver provocato la guerra in Ucraina, esempio di come può essere stravolto il linguaggio: l’aggressore si definisce vittima. Le parole non sono usate per ciò che sono. Ma secondo il filosofo sopra citato, il linguaggio che non corrisponde al dato di fatto è un “non-senso”. Se, poi, il linguaggio rispecchia un ambiente di vita, allora bisogna dire che le affermazioni di Putin sono il riflesso di un humus bellicistico. Nella lettera A Diogneto, al neofita viene detto: “diventa uomo nuovo, come nuovo è il linguaggio che stai per ascoltare”.
Recuperare la gentilezza nel linguaggio
Papa Francesco, in “Fratelli tutti”, dedica tre paragrafi (222-224) al recupero della gentilezza anche nel linguaggio. Si tratta di un punto nevralgico della convivenza umana che, partendo dalle piccole cose quotidiane, se trascurate, possono arrivare a generare conflitti. Infatti, a causa dell’individualismo consumista, gli altri “diventano meri ostacoli, si finisce per trattarli come fastidi e l’aggressività aumenta”. Per Francesco, allora, è necessario recuperare “la gentilezza nel tratto, l’attenzione a non ferire con le parole”. Anzi, al contrario, bisogna “dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano”. E stigmatizzando certi stili frettolosi di relazionarsi con gli altri, molto comuni, Francesco osserva: “Oggi raramente si trovano tempo ed energie disponibili per soffermarsi a trattare bene gli altri, a dire ‘permesso’, ‘scusa’, ‘grazie’ ”. Non è una semplice questione di galateo, ma qualcosa di più importante che ha ricadute profonde nella vita dei popoli: “Questo sforzo, vissuto ogni giorno, è capace di creare quella convivenza sana che vince le incomprensioni e previene i conflitti. La pratica della gentilezza non è un particolare secondario né un atteggiamento superficiale o borghese […]. Facilita la ricerca di consensi e apre strade là dove l’esasperazione distrugge tutti i ponti”.
Alla fine di agosto, è stato rivolto un “Appello interreligioso alle Istituzioni Italiane, ai cittadini e ai credenti in Italia”, firmato dai rappresentanti delle Comunità Ebraiche Italiane, delle Comunità Islamiche d’Italia, dal cardinale Zuppi, presidente della CEI. Tra l’altro si evidenzia: “Questo appello nasce dalla convinzione dell’improrogabile necessità di favorire qualsiasi iniziativa di incontro per arginare l’odio, salvaguardare la convivenza, purificare il linguaggio e tessere la pace”. Su questo punto è intervenuto anche il cardinale Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, che ha invitato i credenti e tutti coloro che fanno cultura a creare un linguaggio che apra strade nuove contro l’odio, che arrivino alla società e alla politica.
Il rapporto, sopra delineato, tra il modo di usare e scegliere le parole, come premessa per la pace, è confermato da Leone XIV: “La pace inizia da ciò che diciamo e facciamo e da come lo diciamo e lo facciamo”. Ancor più si comprende che ognuno è chiamato ogni giorno a fare la sua piccola parte di “artigiano di pace”, in una società dove la violenza verbale spesso sfocia in aggressione fisica fino a causare, in qualche caso, la morte dell’interlocutore, come abbiamo visto accadere in questi mesi a Catania.
Grazie p. Sapienza, per avere sempre un’attenzione a coltivare l’umanità 💓☀️💫 GRATA
Il riferimento di Piero Sapienza a Wittgenstein per quanto riguarda il linguaggio è quanto mai opportuno. La parola è ciò che permette la comunicazione fra gli uomini e va valorizzata e potenziata. Anche in Italia abbiamo sostenitori del dialogo come Guido Calogero, che, sottolineano deve nascere fra i banchi di scuola, dove si forma il rispetto di sé e degli altri. Senza il linguaggio diventiamo degli istintivi e i conflitti di oggi ne sono un’ ampia testimonianza. La diplomazia è resa possibile dal dialogo e, dove manca questo, le conseguenze sono terribili e, purtroppo, a volte, irreversibili. La parola accomuna gli uomini, purché sia ” gentile “. L’ istinto li rende simili alle bestie ( senza volere fare offesa al mondo animale )!