
Foto: Lorenzo Rapisarda
«Opere come questa rendono la Chiesa credibile: una Chiesa che concretizza, oltre ad annunciarlo, il messaggio della salvezza attraverso progetti concreti e il sostegno umano dei volontari. Credo che monsignor Francesco Ventorino, in questo momento, sia orgoglioso di voi e di ciò che siete riusciti a realizzare».
Queste parole di augurio, pronunciate dall’arcivescovo di Catania, Luigi Renna, in occasione dell’inaugurazione della nuova “Casa Livatino” lo scorso 14 luglio, incoraggiano la prosecuzione di un lavoro iniziato nel 2009. Fu allora che don Ciccio (come viene affettuosamente ricordato monsignor Ventorino), insieme a un gruppo di amici, avviò un’esperienza di volontariato nella Casa Circondariale di piazza Lanza, a Catania.
Dall’impegno in carcere alla nascita della Casa
«La Fondazione Francesco Ventorino – racconta Michele Scacciante, presidente della stessa –, che inizialmente era intitolata a Sant’Orsola, ha cambiato nome proprio per continuare, in memoria di don Ciccio, ciò che lui aveva iniziato negli ultimi anni della sua vita terrena dedicandosi ai carcerati. Nel tempo abbiamo consolidato una convenzione con il Carcere, che ci ha permesso di svolgere questa attività di volontariato e assistenza. Da qui è nata l’idea – quasi unica, perché condivisa soltanto con un’altra realtà presente a Palermo – di creare una casa per coloro che sono ammessi a misure alternative di detenzione, ma che per vari motivi non possiedono una fissa dimora in cui scontare la propria pena. In continuità con quell’opera iniziata sedici anni fa, la Casa Livatino intende offrire contemporaneamente un tentativo di riabilitazione per queste persone e un loro reinserimento lavorativo nella società».
Un nuovo inizio tra lavoro e comunità
La nuova struttura nel territorio di Trecastagni nasce a tre anni dalla prima esperienza nella casa di Motta Sant’Anastasia, che poteva accogliere fino a 5 ospiti alla volta. «Abbiamo ospitato in quell’immobile 14 persone, 5 delle quali extracomunitarie», racconta Giorgio Fallica, direttore della Casa Livatino. «La loro permanenza media è stata di dieci mesi: tre di loro, con il nostro aiuto, hanno trovato lavoro. In questa nuova casa – continua Fallica – intendiamo riempire il tempo dei nostri ospiti con attività utili per il loro reinserimento nella vita civile. Si tratta di creare le condizioni favorevoli per suscitare nuovamente un gusto per il lavoro. L’ampio spazio verde consentirà loro di impegnarsi in lavori di giardinaggio e di tipo agricolo».
All’interno della Casa i volontari hanno allestito anche un laboratorio di informatica intitolato ad Antonio Cagni, fisico e docente prematuramente deceduto che per anni si è dedicato al volontariato in carcere. Altri progetti sono in cantiere.
L’importanza del rapporto umano per il reinserimento
«Ma l’elemento decisivo per un positivo inserimento sociale e familiare del detenuto – prosegue il direttore – è una revisione critica della propria esperienza passata. Riteniamo che sia molto utile il rapporto umano con i volontari e con l’educatore. In questi anni – conclude – abbiamo cercato di trattare i nostri ospiti con la stessa affabilità e affettuosa cura con cui noi siamo stati trattati nell’amicizia cristiana. Alcuni detenuti hanno dato una svolta positiva alla loro vita; altri, dopo aver lasciato la casa, sono purtroppo tornati alla vita di prima». Resta, nonostante tutto, un desiderio di continuare che si rinnova quotidianamente.
Nel suo breve intervento prima della benedizione e del taglio del nastro, monsignor Renna ha aggiunto: «Luoghi come questo permettono, a chi nella propria vita ha subìto privazioni e conosciuto cattivi esempi, di scoprire un nuovo volto dell’umanità. Nel caldo dibattito sulle carceri – ha continuato l’arcivescovo – si inserisce anche la Chiesa, parte attiva della società civile. Il nostro compito è quello di promuovere il valore della sussidiarietà, poiché la grande richiesta sarà quella di incontrare persone che accompagnino al lavoro, con attività che possano continuare anche dopo. La più difficile opera di misericordia – “ero carcerato e siete venuti a trovarmi” – qui si realizza».