Durante le elezioni politiche degli ultimi anni (sia nazionali sia regionali e anche comunali) si è registrata, nel nostro Paese, una forte percentuale di astensionismo, soprattutto tra i più giovani.

La distanza dei cittadini dalla politica, oggi è più che mai pericolosa, e viene accentuata anche dal fatto che la stessa legge elettorale (il famigerato porcellum) non permette di votare il nome del candidato di propria fiducia. Si può dire che i politici di professione, già facendo le leggi in un certo modo piuttosto che in un altro, quasi “su misura”, “scippano” ai cittadini il diritto di scegliere concretamente i propri rappresentanti al parlamento e contribuiscono così a far crescere la disaffezione verso la politica, ostacolando la realizzazione di quella inclinazione socio-politica tipica di ogni persona umana.

Uno spettro si aggira per l’Europa: l’astensionismo elettorale.

Il fenomeno, con molta probabilità, si ripeterà nelle prossime elezioni europee di giugno (anche se la legge elettorale è diversa da quella che regola le elezioni per il nostro Paese). E ciò si spiegherebbe, sia perché in tanti predomina una sorta di euroscetticismo, e anche perché molti cittadini considerano l’Europa come qualcosa di distante, che non li riguarda. E davanti a questo scenario, bisogna aggiungere che sicuramente non aiutano certe espressioni come quelle che, ad esempio, si leggono nel Manifesto del listone di Cateno De Luca: “Unità contro l’Europa liberticida”, e ancora slogan come “meno Europa più Italia; meno Europa più sovranità”.

In questi giorni, vediamo che i vari partiti “scaldano i motori” in vista della prossima competizione elettorale e sentiamo parlare delle loro trattative sui candidati, per lo più da confermare, e in altri casi di possibili nuove entrate. E, ovviamente, il tutto all’ombra delle segreterie dei partiti, agli ordini indiscussi dei loro leader, nel totale misconoscimento delle opinioni della base dei cittadini. Quando invece “i vari soggetti della comunità civile, ad ogni suo livello, dovrebbero essere informati, ascoltati e coinvolti […]” (Compendio dottrina sociale della Chiesa  n 190).

Con questo sistema succede, come sempre, che, nella maggior parte dei casi, verranno candidati per lo più gli stessi personaggi, i quali, magari già sono “figli” o “nipotini d’arte”, oppure fratelli e sorelle, o altri congiunti vari, che hanno ereditato il “feudo” delle clientele, con il loro sicuro serbatoio di voti. Si ha l’impressione (parafrasando don Milani) che il “cromosoma” della politica sia stato trasmesso da padre in figlio. Sembra di essere di fronte ad un neo-feudalesimo che comprende i territori e gli intricati spazi del potere politico, dove alcuni instaurano a vita il loro dominio privato. Pertanto, ben a ragione, l’uso linguistico comune ha coniato l’espressione “casta politica”, che ha allargato sempre di più la forbice tra il cittadino e la politica.

Quando la politica diventa una casta

Secondo questa consuetudine, quello dei politici diventa un “ceto di professionisti della vita pubblica”, che non vogliono mai mollare la poltrona (acquisita magari per tradizione dinastica, come detto sopra), e difficilmente fanno spazio ai giovani e ai nuovi, a quelli che non fanno parte della cerchia privilegiata di questa sorta di “ordine sociale”. Ma, alla fine, “la politica come professione vitalizia finisce con l’esaurire, salvo rare eccezioni, la capacità d’interpretare il mandato rappresentativo”. Pertanto, essa si snatura e, in un certo senso, implode su se stessa, perché perde di vista il suo nobile scopo. Infatti, la stabilità del ceto politico e la sua “autoriproduzione” tendono a “ridurre la politica a gara, anche sleale, per l’accesso al potere o a esercizio, anche interessato, della gestione del potere conquistato, e quindi a patteggiamenti nella spartizione dei tanti territori quanti ne presenta l’assetto policentrico del potere [….]”  (F. Casavola, La politica “educata”).

Favorire l’alternanza dei dirigenti politici

Il Compendio, sopra citato, (n.189), affrontando questi problemi, afferma che bisogna favorire “l’alternanza dei dirigenti politici, al fine di evitare che si instaurino privilegi occulti”. Si tratta di un’esigenza fondamentale dalla quale un regime democratico non può assolutamente prescindere. Inoltre, è necessario che coloro che svolgono attività politica siano spinti da «una forte tensione morale nei confronti del bene comune».  Queste osservazioni del Magistero sociale sono da confrontare anche sul recente dibattito tra le diverse forze politiche, che in vista delle elezioni regionali hanno portato avanti l’idea di eliminare lo sbarramento per il terzo mandato di alcuni governatori.

Il quadro delineato si fa più critico se osserviamo che questi professionisti della politica, in molti casi, non hanno solo un incarico nazionale, regionale o comunale, ma in genere sommano (con una grande sintesi di carismi!) almeno due o più incarichi. Insomma, sono sempre gli stessi personaggi, inossidabili, che occupano la scena politica, per spirito di servizio e senso di sacrificio (come dichiarano sui vari media). Ma per costoro sarebbe utile leggere quanto, nell’antichità classica, scriveva lo storico Senofonte, nei Memorabili, riferendo che Aristippo affermava, con ironia, dei politici del suo tempo: “visto che costa tanta fatica procurare a se stessi ciò che serve, solo un pazzo può volere di più, e addossarsi l’onere di procurare ciò che serve agli altri cittadini”.

La dimenticanza dei grandi temi del bene comune

Le dispute e le varie schermaglie politiche, che ogni giorno ci vengono propinate attraverso i mass media, nonostante il loro vestito “politichese”, vertono su meschini gossip, sono infarciti di volgarità, di turpiloquio, di pesanti accuse e calunnie, con il contorno di insulti e “aggettivi s-qualificativi” (spesso irripetibili, almeno per chi ancora ci tiene alla buona educazione e al galateo), che denunciano il vuoto pauroso di una politica, incapace di affrontare, con competenza e rigore, i veri nodi che possono o meno realizzare il bene comune: dalle problematiche del lavoro a quelle dello sviluppo economico, dalla famiglia alla scuola, dalla malasanità allo sperpero delle risorse pubbliche, dalla carenza di infrastrutture e al persistente divario tra Nord e Sud del Paese, fino alle urgenti problematiche ambientali, tanto per citare alcuni dei più scottanti capitoli. 

Partiti unipersonali

Un altro elemento, da tenere in considerazione, che allarga la forbice tra l’universo politico e la sfera dei cittadini, è dato, a mio avviso, dal fatto che i partiti si vanno sempre più identificando con i loro leader, assumendo forme personalizzate a scapito di programmi e di autentici ideali politici. Non è sicuramente un caso che i simboli dei partiti, molto spesso, sono sormontati dal nome del capo. Questo forse spiega anche il fatto che litigando con i leader, i candidati, con frequenza e con troppa facilità, cambiano “casacca”, magari trasmigrando da un punto all’altro opposto dello schieramento politico. Anche la politica, così, diventa liquida, come del resto la stessa società contemporanea.

La democrazia partecipativa

Siamo di fronte ad un’emergenza politica? Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, con molta chiarezza, denuncia che sono molto diffuse forme partecipative scorrette o insufficienti, che “meritano una preoccupata considerazione” perché causano tra i cittadini una “diffusa disaffezione per tutto quanto concerne la sfera della vita sociale e politica”. La via alternativa da intraprendere è quella della “democrazia partecipativa” (n 191). In altri termini, si richiede un impegno che prenda le mosse dalla base, e pertanto, se si vuole rinnovare la politica, tutti devono prendere coscienza che hanno il dovere di esercitare una cittadinanza attiva, puntando ad una sua ricaduta politica. Riemerge, in tal modo, l’esigenza che “le comunità cristiane educhino al sociale e al politico” (come affermava un documento della CEI del 1998!). Si tratta di una formazione trasversale da articolare in tutte le forme della vita ecclesiale. Infatti, bisogna convincersi che la politica non si fa solo nei partiti e non deve calare dall’alto, cioè dai leader e dai fedelissimi, che fanno parte del loro stretto entourage. A tal proposito, i vescovi italiani sottolineano: “Per un corretto svolgimento della vita sociale, è indispensabile che la comunità civile si riappropri quella funzione politica, che troppo spesso ha delegato esclusivamente ai “professionisti” di questo impegno nella società. Non si tratta di superare l’istituzione “partito”, che rimane essenziale nell’organizzazione dello Stato democratico, ma di riconoscere che si fa politica non solo nei partiti, ma anche al di fuori di essi, contribuendo a uno sviluppo globale della democrazia con l’assunzione di responsabilità di controllo e di stimolo, di proposta e di attuazione di una reale e non solo declamata partecipazione” (CEI, Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese n 17).

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